La battaglia contro la disumanizzazione

1 Agosto 2018
[Guido Viale]

La battaglia trentennale promossa da Liliana Segre contro l’indifferenza (contro cui si scagliava anche Gramsci) è stata persa senza nemmeno combatterla. Ormai i sentimenti e gli atteggiamenti con cui fare i conti sono altri. Mentre guardavamo altrove un’ondata di odio, sospinta dai leader delle destre europee e, in forma sia diretta che non, dai principali media, ha tracimato e invaso ogni angolo della società e delle nostre vite; un’onda moltiplicata dai social e da un linguaggio che degrada milioni di esseri umani a mere fonti di disturbo, di cui si può fare quello che si vuole – come spari seriali ad aria compressa contro neri e zingari, abusi sessuali su minorenni da parte di preti, passeur e chissà quanti altri – o a parassiti di cui occorre solo sbarazzarsi trattenendoli orespingendoli nei Lager libici. Odio e disprezzo cadono su un terreno reso fertile dall’egoismo promosso da una cultura della competizione universale che è l’altra faccia del servilismo: perché per andare avanti o anche solo per non restare indietro occorre entrare nelle grazie di chi sta sopra di noi. Ma anche del cinismo: così ci si compiace perché l’arrivo di profughi è diminuito pur sapendo benissimo che ne è di coloro che non arrivano più.
Ormai si può smettere di collocare la paura alla radice delle reazioni che stanno rovesciando la geografia politica dell’Italia e dell’Europa. Nessuno o quasi ha veramente paura dei migranti, né quando ne vede uno sbarco alla televisione, né quando li incontra per strada. Tutti sanno che non sono nient’altro che pacchi da rimpallarsi da un paese all’altro. Gli “imprenditori della paura” di un tempo, come Salvini, che su quel sentimento hanno costruito le loro fortune elettorali, hanno portato a termine la prima fase del loro lavoro e ora possono dedicarsi a predicare odio e seminare disprezzo. Disprezzo per un’umanità sofferente e miserabile, che proprio per questo merita di essere maltrattata. E odio riversato a piene mani contro chi ancora si oppone a questa ondata nera, cercando di salvare vite o attivando iniziative di solidarietà. Un compito sempre più difficile, anche perché il territorio istituzionale dell’accoglienza è stato in gran parte appaltato a schiere di ladri, liberi di maltrattare migliaia di disperati: gente scelta e protetta proprio da quei Prefetti che dovrebbero controllarli.
L’ascesa dell’odio a principio regolatore dei comportamenti sociali e dell’operato delle istituzioni impone di riconoscere anche nei sentimenti i motori di alcune delle trasformazioni politiche e sociali in corso; per questo le passioni devono tornare a essere oggetto di analisi, di confronto e di lotta, dentro una geografia dei sentimenti che non può certo scalzare quella delle classi e delle istituzioni, ma che nemmeno si sovrappone ad essa come mera “sovrastruttura”.
Per ora la battaglia contro la disumanizzazione dei nostri simili è in gran parte persa. Per riprenderla e continuare a combatterla occorre costruire delle ridotte dove raccogliere le forze ancora impegnate su questo fronte; che sono molte, ma disperse e disorientate. Il punto di forza forse più importante che abbiamo è la rete in fieri delle città santuario – “aprite i porti!” – da cui potrebbe sorgere una leadership poco compromessa con le vicende che hanno portato alla scomparsa delle sinistre europee. Di lì si potrebbe lanciare un progetto che leghi il rispetto della dignità umana alla conquista o alla difesa di condizioni di vita decenti per tutte e per tutti; misure politiche ed economiche, ma anche comportamenti, stili di vita, pensieri e sentimenti replicabili ovunque.
I nostri per ora non lo sono: non lo sono quelli dei poveri, perché sono poveri; e quelli dei ricchi, perché sono ricchi: in entrambi i casi sono modelli di vita improponibili. Presentarle come soluzione – “Quando l’Africa si sarà sviluppata…”, che è il corollario del famigerato “aiutiamoli a casa loro” – è solo una manifestazione di prepotenza o di ignoranza. Per entrare in quest’ordine di idee occorre però dismettere l’armamentario politico e teorico con cui si è cercato o fatto finta di contrastare l’avanzata dell’onda nera che ci sta travolgendo; e dismettere anche molti atteggiamenti che li accompagnano: arroganza, ipocrisia, presunzione; specie la pretesa di essere i più bravi nel costruire la “Fortezza Europa”: che è il cuore della disumanizzazione in corso.
Per imboccare una strada diversa da quella dell’establishment europeo bisognerà cominciare col rimettere al centro la ricerca di un rapporto più aperto con i nostri simili; per cercare di comprendere – che non vuol dire condividere – le “ragioni” degli altri; anche quando sono, e non potrebbero non essere, conflittuali con le nostre; per riconoscere e mettere a frutto quello che abbiamo in comune con tutti: sia con le persone da riscattare dalla disumanizzazione in cui le si vuole confinare, sia con quelle da liberare da una disumanità che rischia di inghiottire e travolgerci tutti. Ciò richiede – e l’enciclica Laudato sì ne è una sintesi insuperata – l’instaurazione di un rapporto altrettanto aperto anche con la Terra che ci ospita e con il vivente tutto: i cui cicli definiscono le regole della riproducibilità sia della specie umana che dell’ambiente da cui essa dipende. Soltanto con la conversione ecologica sia del nostro agire che dell’organizzazione economica e sociale possiamo sperare di rimuovere la muraglia che sta isolando ciascuno di noi da tutti gli altri e, sempre più, dalle condizioni di una vita degna di essere vissuta, o addirittura da quelle della sopravvivenza della specie umana. Si tratta di una battaglia sia di argomenti che di sentimenti; ma entrambi radicati nella prospettiva di un cambiamento che coinvolga l’assetto economico e sociale delle nostre vite. L’esistenza di chi non odia e non disprezza il prossimo è più bella e soddisfacente di quella di chi si lascia trascinare dal rancore. Ed è anche più costruttiva; perché è di lì che nascono – e in parte sono già pronte, e aspettano solo di essere adottate – le soluzioni per portarci fuori dal degrado ambientale con cui il genere umano si sta condannando a una rapida estinzione, ma anche per promuovere la rigenerazione dei territori che alimentano le odierne migrazioni. Per permettere a tutti di “aiutarsi l’un l’altro”: non “in casa propria”, ma nella casa comune.

[Da il manifesto]

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