La bella gioventù

16 Maggio 2009

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Manuela Scroccu

Gioventù e bellezza sono per il Presidente del Consiglio quello che la cipria e i profumi erano per i nobili delle corti del Settecento: un modo efficace per far apparire fresco e profumato un corpo maleodorante e corrotto. E’ per questo che non ha destato stupore, e tantomeno sdegno, la risposta di Silvio Berlusconi a chi gli chiedeva perché avesse scelto proprio Giovanni Chiodi per la corsa elettorale per la presidenza della regione Abruzzo: “E’ giovane e bello”. Concetto Vecchio, giornalista di Repubblica, decide di partire idealmente da queste parole per raccontarci il suo viaggio tra i giovani italiani tra i 25 e i 35 anni. “Giovani e Belli”, un anno fra i trentenni italiani all’epoca di Berlusconi (Chiarelettere, pagg. 167, 14 euro), raccoglie le interviste ai cervelli in fuga finalmente apprezzati all’estero, alle toghe sfruttate (nuova categoria tutta italiana, quella dell’avvocato precario), alle single per sempre, ai giovani del sud disperati come cinquant’anni fa ma con meno speranze, ai professionisti dei concorsi pubblici, ma anche alle fiere appartenenti alla “tribù del tacco dodici” portate in Parlamento da Silvio Berlusconi. Perché è lui ed ancora lui la chiave di lettura del mutamento antropologico “fotografato” da questa inchiesta. Come dice l’autore nel prologo del libro, è la sua figura quella che “giganteggia” su questa Italia annientata. E’ tutta in fila e divisa in capitoletti, questa mia generazione nata tra la metà degli anni settanta e la prima metà degli anni ottanta, che è stata bambina con i cartoni animati giapponesi mentre i muri e le ideologie crollavano, che ha visto cadere la prima Repubblica, le autostrade saltare per aria e i giudici polverizzati dalle autobombe della mafia, che ha assistito stordita e forse inconsapevole alla discesa in campo e alla presa del potere da parte del “grande venditore”, l’uomo che aveva portato nelle case degli italiani la televisione commerciale, e che è diventata grande nell’Italia dei contratti a progetto. Ci sono i perdenti: i ricercatori plurititolati ed esperti di  biotecnologia che lavorano per 600 euro al mese, quando va bene; la giovane avvocatessa che lavora dodici ore al giorno nel grande studio dei Parioli  per 650 Euro al mese; chi sta in subaffitto dall’ex insegnante in pensione, oppure chi vive ancora con i suoi e chi, più fortunato, dai genitori si fa pagare l’affitto. Ci sono i vincenti, come le “curriculate” e telegeniche giovani leve cresciute da Berlusconi tra cui spicca Barbara Mannucci, deputata a 26 anni, che confessa: «Il mio mito è Gabriella Carlucci». Il Pd non è da meno, con le sue Madie. Ci sono anche i “salvati”, quelli che si riscattano solo oltreconfine, dove sembra un miracolo anche la cosa più normale: un lavoro, un contratto, uno stipendio adeguato alle proprie capacità e competenze. E i sommersi: quelli che vanno in chat o su siti come Meetic per cercare l’amore o il sesso perché è sempre più difficile incontrarsi nella vita vera. Potrei aggiungere mille storie personali a quelle raccontate dall’autore. Potrei dire di Claudia, che lavora felicemente a Londra in una grossa multinazionale e tornerà in Sardegna solo per le vacanze, forse. Potrei dire di Valeria, che da quando si è laureata, tre anni fa, non è mai stata senza “lavorare” ma non ha mai percepito uno stipendio, solo rimborsi spese. Oppure di Sandro, ricercatore precario in attesa di contratto. Le voci dei giovani intervistati da Concetto Vecchio sono l’anima e l’espressione del volto deformato di un Paese immobile, che fa di tutto per espellere come corpi estranei le intelligenze più vivide e pronte della sua classe più giovane e preparata. Insomma storie di talento fatto a pezzi e mortificato da lavori malpagati e precari, esistenze sempre più schiacciate dalla consapevolezza che non vale la pena di lottare. Niente sogni di rivoluzione, è già molto se riusciremo a sopravvivere. Quando è cominciato? Forse ha ragione l’autore: era il 1983 e sugli schermi televisivi irrompevano le ragazze maggiorate e i tormentoni di Drive In. Si rideva a comando per il cane Asfidanken e il paninaro. Dovevamo capirlo allora quello che ci sarebbe successo. C’è anche un capitolo che spiega come è andata a finire. Ma ve lo anticipo già, non fatevi nessuna illusione. Il lieto fine arriva solo per chi conosce la lingua e fugge all’estero.

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