La crisi del progetto europeo secondo i paradigmi di Albert Hirschman

1 Maggio 2018
[Gianfranco Sabattini]

La crisi del progetto di unificazione politica dell’Europa, espressa nella forma di abbandono dell’Unione da parte di uno Stato membro, o dell’abbassamento della fiducia da parte di molti cittadini degli Stati membri sull’inappropriato funzionamento delle istituzioni comunitarie, può essere spiegata alla luce del modello elaborato da Alfred Otto Hirschman nel libro “Exit, voice, and loyalty. Responses to decline in firms, organizations, and States”, tradotto in italiano con il titolo “Lealtà, defezione, protesta. Rimedi alla crisi delle imprese, dei partiti e dello Stato”. Il libro offre una risposta all’interrogativo riguardo alle modalità alternative con cui reagire alla persistenza di una data situazione insoddisfacente all’interno di un dato contesto.

Cosa fanno, ad esempio, i cittadini di fronte al deterioramento dell’organizzazione politica dello Stato al quale appartengono? La risposta di Hirschman è che ciascuno di essi dispone di tre possibili modalità di reazione: andarsene (“exit”), protestare (“voice”), affermare la propria appartenenza (“loyalty”) allo Stato, malgrado l’insoddisfazione procurata dalla sua azione.

L’”exit”, la defezione, è quindi la risposta dei cittadini insoddisfatti, a seguito della quale decidono di andarsene; ma se l’”exit” è il comportamento più probabile, “voice”, la protesta, è il comportamento più frequente ad opera dei cittadini insoddisfatti. Secondo Hirschman, la protesta, a differenza della defezione, corrisponde al tentativo di cambiare, invece che eludere lo stato insoddisfacente delle cose, sia sollecitando individualmente o collettivamente gli establishment ritenuti direttamente responsabili dell’insoddisfazione, sia appellandosi a un’autorità superiore con l’intento di imporre il cambiamento dei loro prevalenti comportamenti, sia, infine, invitando l’opinione pubblica a mobilitarsi.

La protesta serve ad promuovere la riflessione su tutto ciò che non è più condivisibile nel funzionamento di una data realtà politica, ed è tanto più probabile quanto più difficile è l’”exit” (l’abbandono). Ciò significa che la facilità con la quale è possibile abbandonare un’organizzazione in crisi produce un “ridimensionamento” della protesta: i più insoddisfatti, quelli propensi ad elevare la loro voce se ne andrebbero se non esistessero ostacoli all’uscita; se, invece, questi ultimi sono molto elevati, gli insoddisfatti cercheranno forme alternative più praticabili per esercitare la protesta.

Di fronte al declino di un’organizzazione politica, la lealtà è quello meno attraente dei tre comportamenti alternativi. L’uscita è praticata in presenza di opportunità “convenienti”; la protesta richiede impegno, mentre la lealtà non esprime rottura, ma adesione silenziosa a quello che esiste, accettazione e tolleranza dei comportamenti degli establishment. Secondo Hirschman, la lealtà argina l’uscita e attiva la pritesta, per cui la riluttanza a defezionare, nonostante il dissenso con l’organizzazione di cui si è parte, è il tratto caratteristico del comportamento lealista. La conclusione dell’analisi di Hirschman è che la lealtà sia condivisibile quando sono in gioco interessi collettivi (come, per esempio, la qualità delle scuole, ma anche le politiche che attengono alla giustizia sociale) e soprattutto quando ad essa sia possibile associare la protesta.

Edoardo Nicola Fragale, ricercatore di Diritto amministrativo presso l’Università di Chieti-Pescara, in “(Br)Exit and voice nella crisi esistenziale dell’Unione europea” (Istituzioni del Federalismo, numero speciale/2000), descrive la crisi dell’Unione Europea ricorrendo ai paradigmi hirschmaniani di “exit”, “voice” e “loyalty”, sostenendo che la Grande Recessione “ha rivelato la presenza di un assetto istituzionale dell’Eurozona asimmetrico, in cui risultano indeboliti i circuiti nazionali della rappresentanza democratica, entro cui sono normalmente risolti i conflitti distributivi, senza che se ne siano ricreati di nuovi nella dimensioni sopranazionale”. Gli impedimenti con cui è stato ostacolato l’esercizio dell’opzione “voice” (protesta) contro l’asimmetria dell’assetto istituzionale, ha provocato una polarizzazione della politica, che ha alimentato, pressoché ovunque in Europa, l’esercizio dell’opzione “exit”, concepita dai soggetti più colpiti dalla crisi come unico strumento per rimediare agli esiti della crisi.

Secondo Fragale, l’inasprirsi degli esiti della crisi avrebbe alimentato meccanismi di “exit” interni ai singoli Stati membri dell’Unione, “innescando fenomeni migratori di trascendimento dei confini nazionali”, i quali hanno funzionato, ad un tempo, da valvola di sfogo della “voice”, all’interno dei Paesi in crisi, ma anche “da detonatore di sfiducia presso altri confini interni dell’Unione”, alimentando l’opzione di “exit” nei Paesi divenuti poli di attrazione dei flussi migratori. La crisi dell’Unione, causata dalla Grande Recessione, infatti, sarebbe spiegabile – secondo Fragale – come “perdita di fiducia nella stabilità finanziaria degli Stati con più alti livelli di debito pubblico”; rispetto alla crisi, però. una robusta schiera di economisti rinviene la responsabilità del suo accadimento nelle politiche di contenimento salariale attuate dalla Germania, già da prima che la Grande Recessione avesse inizio.

Fra gli economisti è infatti diffuso il convincimento che la Germania, sin dal primo momento della vita dell’Eurozona, abbia potuto trovare il modo per conseguire una sostenuta crescita della propria economia tramite la pratica di politiche di contenimento dei salari, che le avrebbero consentito di aumentare la capacità delle proprie imprese ad esportare con successo i propri prodotti, soprattutto verso gli altri Paesi membri dell’Unione Monetaria. Alla crescita della Germania si è contrapposto un “processo specularmene opposto” nei Paesi più deboli dell’Europa mediterranea, per i quali il calo del costo del denaro, conseguente all’ingresso nell’Eurozona, ha dato origine, oltre che ad un limitato impulso alla crescita della base produttiva e dell’occupazione, ad un aumento del reddito disponibile, causando una perdita di competitività delle imprese, con la conseguente formazione di saldi negativi nella parte corrente della bilancia internazionale dei pagamenti, traducendosi poi in un aumento del debito privato verso l’estero.

Di fronte allo scenario descritto, i Paesi creditori, anziché rimediare agli squilibri attraverso un approfondimento della cooperazione, hanno scelto la via della “colpevolizzazione” dei Paesi debitori, “infliggendo loro dosi crescenti di austerità fiscale” e scaricando l’onere del riequilibrio sugli Stati in crisi, i quali, “già spogliati della possibilità di svalutare la moneta, sono stati costretti […] ad attuare draconiane riforme economiche, sociali ed amministrative”, con l’unico risultato di comprimere i redditi e deflazionare per tale via la propria economia. Recessione e deflazione, saldandosi, si sono diffuse, con effetti tradottisi (il caso dell’Italia può essere scelto come esempio paradigmatico, seppure non il più drammatico) nel crollo della domanda interna, in un incremento della disoccupazione, nell’esplosione del debito pubblico e, con l’andar del tempo, nel continuo “accumulo”, da parte dell’intera Unione europea, di fortissimi avanzi commerciali verso il resto del mondo, “causa a loro volta di instabilità sistemica a livello globale”.

A parte il ruolo svolto dall’ideologia ordoliberista, che ha ispirato le politiche adottate a livello europeo per il contenimento ed il superamento degli esiti della crisi, la mancata cooperazione tra gli Stati membri dell’area della moneta unica è da imputarsi, a parere di Fragale, a un difetto nella costruzione dell’impianto istituzionale dell’Eurozona, consistente nell’aver scelto di “separare le politiche monetarie da quelle economiche e sociali, edificando le prime ad un livello sopranazionale e confinando le seconde ad una dimensione soltanto nazionale”. Un’asimmetria, questa, che l’esperienza ha rivelato insostenibile, a causa delle dinamiche competitive che hanno caratterizzato le relazioni tra i diversi Stati membri e dei conseguenti disallineamenti nei loro livelli di competitività; disequilibri che hanno reso del tutto inidonea la governance soprannazionale interna all’Unione, ben diversa da quella che sarebbe stata necessaria per assicurare l’omogeneità delle scelte di politica economica.

Un apparato istituzionale europeo, che avesse consentito un indirizzo unitario delle politiche salariali, sociali ed economiche attuate all’interno dell’Unione, avrebbe costituito, secondo Fragale, l’unico modo per rimediare senza traumi agli esiti della crisi, riconoscendo “che modifiche incidenti sui costi di produzione all’interno di uno soltanto dei diversi Stati membri” avrebbero riverberato “i propri effetti sul grado di competitività degli altri partner, condizionandone il grado di sviluppo”.

Il mancato riconoscimento della necessità di un indirizzo unitario nell’attuazione delle politiche comunitarie, a parere di Fragale, ha celato negli Stati maggiormente in crisi una profonda avversione dei cittadini degli Stati maggiormente in crisi verso l’UE, nella convinzione che essa si fosse trasformata in unione tra Paesi “permanentemente finanziatori” e “Paesi permanentemente percettori”. Per il superamento di questo convincimento e per l’introduzione di reali automatismi di solidarietà tra gli Stati membri, sarebbe necessaria, ora, una revisione dei Trattati, nella prospettiva di un “nuovo progetto costituente europeo”. Permanendo, al contraio, lo status quo – afferma Fragale – l’attuale Unione non può perciò che configurarsi come “una costellazione di interessi a tal punto conflittuale da rendere difficoltosa l’edificazione di seri meccanismi di riequilibrio”, volti a sanare per questa via gli squilibri che si sono consolidati tra i diversi Paesi dell’Eurozona.

In tal modo, l’Unione europea ha assunto la forma di una “confederazione minima”, funzionante su basi neoliberiste, all’interno della quale, mentre la creazione del mercato unico “ha di fatto compresso i poteri dei singoli Stati nell’individuazione delle politiche economiche e sociali”, la conflittualità degli interessi nazionali ha ostacolato la creazione di “analoghi poteri ad un livello confederale”. Ciò, conclude Fragale, ha fatto sì che la “voice” (protesta) dei cittadini dei singoli Paesi membri non potesse indirizzarsi contro le insufficienze dei meccanismi compensativi a livello di intera comunità. Il mancato sviluppo della protesta, dal canto suo, ha impedito che la governance europea assumesse una dimensione democratica, soprattutto riguardo all’attuazione delle politiche di ridistribuzione degli squilibri economici tra gli Stati.

In realtà, è opportuno osservare, che l’affievolimento della “voice” all’interno dei singoli Stati è stato causato, oltre che dalla mancata democratizzazione delle istituzioni dell’Unione, anche dal fatto che, come sottolineato dallo stesso Fragale, la crisi dei Paesi indebitati abbia alimentato l’”exit” (l’abbandono) di molti loro cittadini, che hanno preferito indirizzarsi verso altri Paesi dell’Unione meno compromessi dal debito verso l’estero; ciò ha indebolito la “voice” dei Paesi che hanno subito l’”exit” e affievolito la “loyalty” (la lealtà) dei cittadini rimasti in patria nei confronti del progetto europeo originario. Non solo; a livello sopranazionale, i Paesi che hanno “subito” gli esiti dell’immigrazione dei cittadini di altri Stati membri hanno affievolito la loro “loyalty” verso l’Unione, maturando la decisone di abbandonarla, come nel caso della “(Br)exit”.

L’interpretazione della crisi dell’Unione alla luce dei paradigmi hirschmaniani suggerisce, perciò, che il rilancio del processo di unificazione politica dell’Europa rende ineludibile e urgente l’auspicata revisione dei Trattati vigenti, non solo per elevare il livello di “loyalty” dei cittadini dei singoli Stati verso l’obiettivo dell’unificazione politica del Vecchio Continente, ma anche per evitare che il ritardo nella revisione dei Trattati causi un abbandono generale di ciò che sinora, malgrado il deficit di democratizzazione delle istituzioni realizzate, è rimasto ancora in piedi del vecchio sogno dell’Europa unita.

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