La democrazia decidente

1 Settembre 2016
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Marco Ligas

È in corso in queste ferie d’agosto il tentativo, certo non insolito da parte del Pd, di considerare la riforma costituzionale proposta dal duo Renzi-Boschi in linea con i temi che l’Ulivo presentò nel suo programma del 1996.

Il perché di questo recupero identitario non è difficile da capire: si tratta di convincere i vecchi elettori dell’Ulivo, soprattutto quelli delusi dalla politica dell’attuale governo, che il Partito Democratico, nel corso di questi anni, non solo non ha archiviato le proposte dell’Ulivo ma non intende neppure cancellare i principi fondamentali della Costituzione così come è stata formulata dai padri fondatori; piuttosto la vuole aggiornare (ecco un termine che rappresenta una garanzia per la continuità!) sulla base dei cambiamenti sociali che ci sono stati nel corso di questi decenni e per la farraginosità di alcune procedure istituzionali.

La genericità e l’ambiguità di questa conclusione sono evidenti, emergono dal confronto tra il programma dell’Ulivo, appena accennato sui temi costituzionali (si veda la tesi numero 4 di quel programma), e la riforma che verrà sottoposta al referendum nel prossimo autunno: fra di essi non esiste alcuna continuità.

E non è un caso che la stessa iniziativa di Arturo Parisi, è lui uno dei recenti sostenitori della continuità, sebbene possa essere considerata una mossa tesa ad attenuare, nell’opinione dei cittadini, la pericolosità della vittoria del NO al referendum, sia stata subito valutata da diversi osservatori uno stratagemma poco convincente e per niente corretto.

Non siamo mai stati patrocinatori della politica dell’Ulivo ma riteniamo opportuno ricordare che il Pd, soprattutto oggi, è lontano da quelle proposte; non si può parlare di riforma costituzionale in modo strumentale, sottovalutando aspetti importanti come la partecipazione dei cittadini alla vita democratica del paese.

Tra le altre cose, nella proposta Renzi-Boschi è assente, è bene ribadirlo, non solo l’ipotesi di un sistema di ispirazione federale, ma è previsto che gli stessi consiglieri regionali siano eletti tra i partiti presenti in Consiglio regionale, e pertanto espressione delle articolazioni regionali dei partiti, ma non delle stesse Regioni.

Siamo dunque ben lontani dall’elezione diretta dei rappresentanti del popolo e dal decentramento dei poteri dello Stato, il quale, al contrario, concentrerà ulteriormente, in caso di vittoria del SI, i suoi poteri a danno delle autonomie locali.

C’è un aspetto nel giudizio che Arturo Parisi ha espresso che colpisce per la sua indeterminatezza. Dice Parisi nell’intervista rilasciata alla Stampa: il nostro paese ha bisogno di una democrazia decidente. Ma che cosa significa questa affermazione? Forse Parisi vuol dire che è indispensabile la governabilità; ma in tal caso è più che mai opportuno completare questo concetto indicando chi dovrebbe esercitare la governabilità e per quali obiettivi.

Essendo queste le questioni più importanti, le risposte conseguenti vengono da sé: in primo luogo la governabilità deve essere garantita dai cittadini, direttamente attraverso il voto; successivamente saranno i loro rappresentanti eletti secondo criteri di proporzionalità che dovranno praticarla.

Se davvero prediligiamo una democrazia decidente dobbiamo usare la massima precisione nel definire in primo luogo l’area politica e sociale che legittima il governo. La riforma Renzi-Boschi (e nemmeno il Porcellum) non la legittima affatto, a meno che non si accetti l’ipotesi che soltanto un terzo o, peggio ancora, un quarto degli elettori sia autorizzato a dare il mandato ad un governo che naturalmente non rappresenterebbe il paese.

Ma c’è l’altro aspetto che rimane volutamente in ombra quando si parla di governabilità: non si discute adeguatamente di idee, di progetti politici capaci di suscitare consenso, partecipazione e sostegno da parte dei cittadini. Lo stesso Parisi quando parla di democrazia decidente elude questo argomento confermando come queste questioni vengano regolarmente accantonate come se rappresentassero un intralcio alla realizzazione dei programmi che altri (il Fmi, la Bce, la Fed) hanno deciso per noi. Eppure è evidente che in assenza di questi confronti, la democrazia degenera e diventa inganno e formalità. Non dimentichiamo che il nostro paese tende a lasciare fuori dalle competizioni elettorali la metà dei cittadini, altro che democrazia decidente.

In realtà chi governa vuole usare il referendum d’autunno come occasione per sancire definitivamente il dominio di chi lo esercita già. Da diversi anni ormai è in atto la tendenza a consolidare le antiche alleanze col mondo delle banche, delle imprese e dell’alta burocrazia. Queste coalizioni impongono l’omologazione del settore pubblico a quello privato attraverso inasprimenti della pressione fiscale sul lavoro dipendente, i licenziamenti e la precarietà di tanti insegnanti tramite “la buona scuola”, la generalizzazione del jobs act e la sua estensione allo stesso settore pubblico.

Di pari passo migliorano i compensi ai rappresentanti di questa burocrazia perché controllino sia il settore dell’informazione (quel che avviene alla Rai è eloquente) sia quello della produttività dei lavoratori del settore pubblico.

Viene da sé che se sono questi i valori e l’area politica e sociale che contribuiscono alla definizione della democrazia decidente è più che mai necessario difendersi con un NO chiaro alle prossime consultazioni referendarie.

Nell’immagine: the thin deterrence of democracy di Giovanni Scifo

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