La domenica di Pasqua. In ricordo di Marco Ligas

18 Aprile 2021

[Gianni Loy]

La domenica di Pasqua, in zona rossa, scorre rassegnata. Anche le campane suonano in tono minore. Autocensura, sordità incombente o disinteresse per quei rintocchi che, un tempo, i miei vecchi compagni del Manifesto avrebbero voluto silenziare con un editto. E che a me, invece, non toglievano il sonno; anche se il tempo dell’ingenuità si era esaurito, evocavano note liete di festa e di vestito domenicale.

Ancora una volta richiusi, come l’anno passato. Ma i controlli più blandi. Si può circolare senza doversi portare appresso un lasciapassare, anche se solo per i motivi consentiti.

Il tempo, questa mattina, scorre più lento del solito. Capita di attendere la festa con frenesia per poi attendere, con comparabile impazienza, che abbia termine.

Ormai non distinguo il giorno lavorativo dalla domenica. Eppure, era sufficiente aprire la finestra per accorgersene; in realtà, neppure era necessario, perché la differenza, un tempo, era impressa nei bioritmi.

È con questi pensieri che attraverso il tempo della domenica di Pasqua. Passeggio accompagnato dal confronto con le vestigia del passato.

Prolungherò la passeggiata sino alla panchina della stazione ferroviaria – sono ancora in attesa che il treno passi; in questa strana stazione gli orari non vengono esposti – dove, negli ultimi tempi, amavo trattenermi a ragionare sul trascorrere del tempo.

Lo so bene che non troverò il mio interlocutore, non più. Il treno di Marco è transitato, non so quanto all’improvviso, proprio nei giorni della passione, rapido, silenzioso, come si confà ai tempi della pandemia. Ma non importa. Il dialogo, in fin dei conti, posso immaginarlo.

Con Marco, negli ultimi tempi, era diverso, non lo nego. Chiacchierare con lui era piacevole. Continuavo a sorprendermi, ogni volta, di come fosse germogliata la nostra amicizia, singolare e tardiva, perché quando stavamo nel PdUP, mezzo secolo fa, eravamo come separati in casa, ché tanta era la distanza che allontanava noi, Cattolici del dissenso, da loro, Eretici del comunismo.

Ma il tempo passava. Nonostante il rapido scioglimento di quel sodalizio, concluso con un divorzio, consensuale ma burrascoso, le nostre strade continuavano ad incrociarsi, giorno dopo giorno, nei luoghi della militanza.

È stato così che, a poco a poco, è nata la simpatia. Quanto ai modi della militanza, perdonate se ripeto un termine desueto, ciascuno continuava per il proprio sentiero – che, tuttavia, sempre più spesso, si incrociava con l’altro – ma sempre più chiaro e comune mi appariva l’obbiettivo finale che, con altro termine desueto, mi viene da chiamare ideale.

È stato così che abbiamo ripreso a dialogare, pacatamente, di quando in quando, con toni che a partire dall’impegno politico scivolavano, all’occasione, sul personale. Più l’ascoltavo e più cresceva la mia stima; di più: mi affascinava. È stato Marco ad introdurmi ad una più approfondita conoscenza del suo mondo d’origine, a coinvolgermi, tanti anni fa, nelle sacre rappresentazioni della sua religione, a farmi incontrare i suoi ministri carismatici. Come dimenticare Luigi Pintor e la sua personale sofferenza?

Tenace, paziente, aperto, ancora cercava, a sua volta, le piste dove comunisti e cattolici potessero, insieme, porre un argine alla decadenza dilagante.

Ci davamo appuntamento, qua e là. Parlavamo di tutto e di niente. Intanto, dedicava tutte le sue energie per evitare che la sua più cara creatura politica, il Manifesto sardo, potesse cessare le pubblicazioni. Consapevole della provvisorietà, cercava passioni giovani alle quali trasmettere l’impegno e l’entusiasmo che davano forma e contenuto al suo dovere di comunista.

Preparava un buen retiro. Aveva già allestito il ricovero, nel paese. Lo sperimentava, coltivando i propri affetti, compatibilmente con l’assolvimento del proprio imperativo categorico.

Non gliel’ho mai chiesto, ma credo non abbia mai trasgredito all’obbligo di comunicarsi quotidianamente.

Cercava di coinvolgermi, questo sì. Ma amava anche ripassare il passato. Una storia non più, o non solo, disegnata con formule politiche ma anche illuminata, od oscurata, dal tratto umano delle persone che l’hanno attraversata.

Ragionare solo per ragionare, nel tempo della senescenza, seduti su una panchina della stazione, in attesa di Godot ma consci del suo perenne ritardo.

Nel frattempo, osservo che Mustafà ha occupato una parte della panchina. Gli auricolari conficcati nelle orecchie; la borsa, appoggiata sopra le ginocchia, danza a ritmo di rap. Anche Mustafà attende, ma un altro treno.

Quando mi vede arrivare – leggendomi nello sguardo – mi fissa, allarmato. Con espressione del volto, giura, sul suo Dio, che la panchina era vuota, rivendica il proprio diritto di sedersi, assicura di non far male a nessuno.

Lo tranquillizzo. Mi siedo accanto al nuovo venuto. Abbozzo un sorriso. Tutto scorre.

Penso che, in vita, ho conosciuto persone straordinarie. Marco una delle più belle. Molte sono già partite.

E penso a quante volte di troppo ho taciuto.

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