La gravità dell’accordo del 10 gennaio

1 Febbraio 2014

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Tommaso Cerusici

Nell’ultimo numero di Inchiesta (ottobre-dicembre 2013) abbiamo potuto leggere un’intervista di Loris Campetti a Gianni Rinaldini e Bruno Papignani nella quale veniva spiegato il senso dell’adesione al Documento congressuale “Il lavoro decide il futuro”, la cui prima firmataria è Susanna Camusso. Entrambi gli intervistati avevano però manifestato diverse perplessità rispetto alla linea della Cgil degli ultimi anni e avevano proposto di contribuire al suo dibattito interno e alla sua elaborazione attraverso degli emendamenti ben precisi: su pensioni, politiche industriali e di sviluppo, contrattazione, inclusione sociale, democrazia e partecipazione nell’organizzazione. Dopo la firma da parte di Susanna Camusso dell’accordo tra Cgil-Cisl-Uil e Confindustria del 10 gennaio sulla rappresentanza, lo scenario è radicalmente mutato. Maurizio Landini ha parlato di un “accordo con alcuni contenuti mai discussi in nessun organismo della nostra organizzazione” mentre Gianni Rinaldini ha dichiarato che si tratta di un “accordo inaccettabile” e che “introduce aspetti di fondamentale importanza non solo mai discussi ma sempre contrastati nella storia della Cgil”. Abbiamo posto alcune domande a Gianni Rinaldini (ex Segretario generale della Fiom e Coordinatore dell’area “La Cgil che vogliamo”) per capire meglio quanto sta avvenendo.

Tommaso Cerusici Ti chiedo di spiegarci la gravità di quell’accordo, dal tuo punto di vista, rispetto al metodo e rispetto ai contenuti.

Gianni Rinaldini Innanzi tutto penso che merito e metodo non siano scindibili, perché compongono il senso stesso della democrazia. Non vorrei infatti tornare a ragionamenti infausti tra il metodo – cioè la democrazia – e il merito, che invece sarebbe la cosa più importante. Quello che è successo al Comitato Direttivo della CGIL con il voto che è stato espresso, è un fatto gravissimo, persino inverosimile, di cui ne va della stessa dignità del gruppo dirigente della CGIL. Hanno fatto finta di credere alla farsa di un accordo definito “Testo Unico sulla Rappresentanza”, che, non solo assorbe gli accordi precedenti, ma aggiunge questioni fondamentali, che ne modificano sostanzialmente il significato  come se fosse un regolamento attuativo e non un accordo. Si sono comportati come quei parlamentari che hanno votato che Ruby è la nipote di Mubarak!  In questo modo si sono volute eludere le norme statutarie che prevedono che la Segretaria Generale non può firmare accordi senza il mandato del Comitato Direttivo e l’accordo deve essere sottoposto alla consultazione degli iscritti interessati. Quale ipocrisia! Gli esempi possono essere tanti ma è sufficiente, leggendo il testo, scoprire che più volte vengono richiamati gli accordi, compreso quello del 10 gennaio 2014. Non c’è scritto da nessuna parte che quello è un regolamento attuativo! Questo già la dice lunga sull’ipocrisia di fondo. Nel merito, si introducono nuove norme che riguardano la libertà sindacale, cioè le forme di accesso ai tavoli negoziali, che non si limitano più – come era previsto – alla percentuale del 5% ma che vincolano – questo a mio avviso modificando lo stesso dispositivo della Corte Costituzionale – alla partecipazione nella preparazione della piattaforma e all’essere firmatari del Contratto Nazionale precedente. Viene inoltre definito un meccanismo sanzionatorio, che invece non era previsto nell’accordo del 31 maggio 2013, nel quale si parlava di “clausole di esigibilità” che venivano rimandate ai Contratti Nazionali di categoria. Il termine sanzione non esiste. Nel testo del 10 gennaio ’14 viene esplicitamente concordato un sistema sanzionatorio, indicando anche quali possono essere le sanzioni per quanto riguarda le organizzazioni sindacali e i delegati nell’esercizio dell’attività sindacale, a fronte del non rispetto delle clausole che lì vengono definite.  Si tratta di un sistema sanzionatorio che – non solo alla Fiat – il sindacato ha sempre rifiutato, che da sempre la CGIL ha rifiutato nella sua storia! Questo aspetto viene inserito anche nell’accordo del 28 giugno 2011, quello riguardante la contrattazione aziendale, dove si considerano validi ed esigibili gli accordi stipulati a maggioranza dalle RSU, senza prevedere la consultazione, il voto dei lavoratori, si aggiunge nel recente accordo che “definiscono clausole di tregua sindacale e sanzionatorie”. Altro aspetto – ma se ne potrebbero citare tanti altri – è che, a fronte di problemi tra le categorie nel rispettare le regole che sono state lì definite, scatta obbligatoriamente l’arbitrato di un’apposita Commissione, composta da Confederazioni, Confindustria e un terzo soggetto autorevole, da scegliere tra una rosa di nomi.  Anche questo è un aspetto che non fa parte della storia della CGIL; nel senso che tali questioni – che esistono da sempre – venivano risolte con delle Commissioni nazionali tra i sindacati e le Associazioni padronali di categoria, che potevano tra l’altro esprimersi soltanto all’unanimità rispetto a problemi inerenti l’applicazione dei contratti. L’adesione a questo impianto costituisce il vincolo per l’accesso ai diritti sindacali, alla partecipazione delle trattative, eccetera. Siamo quindi di fronte ad una riduzione della libertà sindacale nel nostro paese, ad un accordo neo-corporativo, dove alcune Organizzazioni si auto-tutelano, pensando in questo modo alla evidente crisi di tutte le forme di rappresentanza sociale. Il fatto incredibile è che per l’ennesima volta – anche se in questo caso si tenta di compiere  l’atto conclusivo di una storia che va dall’accordo del 28 giugno 2011 a quello del 31 maggio 2013, fino all’ultimo del 10 gennaio 2014 – venga firmato un testo così importante senza alcun mandato! Riproponendo uno schema purtroppo già visto nel corso di questi anni: prima avviene la firma del Segretario e solo dopo si riunisce il Comitato Direttivo che, a quel punto, non può fare altro che votare sulla fiducia al Segretario o meno. Ciò fa scattare un meccanismo inevitabile, tanto più se avviene in piena fase congressuale, con assemblee in corso e con il Comitato Direttivo Nazionale dimissionario, con tutto quello che significa, con tutte le voci che imperversano sulle future collocazioni dei dirigenti. Siamo al deflagrare della questione della democrazia in CGIL! Sta emergendo un’idea che considera la democrazia, non un diritto dei lavoratori – quindi in quanto tale da definire legislativamente – ma esclusivamente un problema sindacale, come se fosse una materia negoziale.  Si afferma in questo modo, una concezione proprietaria della democrazia, da parte delle organizzazioni sindacali, che definiscono tra di loro e assieme alla Confindustria un patto neo-corporativo per auto tutelarsi a vicenda. Questa è la verità. Perciò dico che ne va anche della dignità stessa del gruppo dirigente. Perché quando un dirigente, al di la del giudizio che esprime sull’accordo, è disponibile a essere trattato in questo modo e a non reagire a una siffatta operazione, è una sconfitta, una degenerazione per la stessa organizzazione così come per i lavoratori e le lavoratrici.

Tommaso Cerusici Come si è giunti all’accordo del 10 gennaio? Mi sembra che s’inserisca in un percorso più ampio di costante indebolimento della tenuta democratica dentro e fuori le organizzazioni sindacali…

Gianni Rinaldini In realtà, già dall’accordo separato del 2009 – se escludiamo la parte economica – questo triste scenario era ben presente. A partire da quell’accordo separato – per una ragione o per l’altra – sono stati modificati contratti e deroghe. E’ successo di tutto e tutti ne hanno discusso: gli unici che non hanno mai potuto esprimere un parere sul loro contratto e sulla loro condizione sono proprio i lavoratori! Tutto quello che è stato fatto nel corso di questi anni è stato accompagnato dalla pura e semplice cancellazione della democrazia nei luoghi di lavoro. Questo – a mio avviso –  interroga non solo il mondo sindacale ma anche quello politico, riguarda gli intellettuali e tutti coloro che sono contrari ai processi in corso: le questioni del lavoro e della democrazia nel lavoro non sono un semplice problema di natura sindacale. I lavoratori, le lavoratrici a cui viene tolto un diritto democratico e gli viene detto “voi non contate niente”, non possono che farsi una idea perlomeno strana, della democrazia politica, dei partiti e delle Istituzioni.

Tommaso Cerusici Dopo il 10 gennaio 2014, secondo te, cosa cambia rispetto al percorso congressuale appena avviato?

Gianni Rinaldini La scelta che abbiamo compiuto degli emendamenti rappresenta uno strumento   per affermare l’esistenza di una battaglia politica, per ribadire che non esiste una sola posizione all’interno della CGIL. Basta citare i titoli dei quattro emendamenti – contrattazione, pensioni, questione degli ammortizzatori sociali e del reddito minimo, quello sulla democrazia che arriva a proporre modifiche sostanziali allo statuto della CGIL – per comprendere che erano e sono uno strumento di battaglia politica, di confronto tra diverse posizioni. Non c’è dubbio che quanto è avvenuto rappresenta un salto di qualità nella discussione congressuale, perché, con i Congressi aperti, si è voluto introdurre con un vero e proprio “colpo di mano” che vuole chiudere la partita sulla democrazia e sulla contrattazione, stracciando qualsiasi elemento di democrazia interna! Quindi l’emendamento che sta venendo avanti dalle prime assemblee, con la proposta del ritiro della firma all’accordo del 10 gennaio 2014 e la richiesta della consultazione e del voto degli iscritti e delle iscritte, introduce un aspetto decisivo e dirimente per la discussione congressuale. Siamo di fronte a un progetto, per quanto riguarda la CGIL, di gerarchizzazione dell’organizzazione, di riduzione delle categorie a pura articolazione della Confederazione e quindi di normalizzazione, da parte della CGIL, di tutti i comportamenti, dalle categorie ai delegati ai lavoratori. Questo diventa l’oggetto vero del dibattito in CGIL, di cui è esempio l’asprezza della discussione nell’ultimo Direttivo Nazionale. Se qualcuno pensa di risolvere problemi di dibattito politico interno con procedure burocratiche e di annullamento della dialettica interna, vuole dire che siamo di fronte alla costruzione di un’altra CGIL, di una CGIL mai conosciuta. La CGIL è sempre riuscita al suo interno a mantenere aperto il massimo della discussione e della dialettica e non ha mai pensato di risolverlo a colpi di maggioranza e minoranza, tanto più rispetto a categorie importanti. La CGIL – che ho conosciuto io – ha sempre pensato alla costruzione di una sintesi. Purtroppo, non può sfuggire a nessuno che, a questo punto, il Congresso mette al centro una questione precisa: un’ipotesi di normalizzazione delle categorie, facendo fuori quelli che non ci stanno.

Tommaso Cerusici Il Comitato Centrale della FIOM ha dato mandato alla Segreteria di costruire un percorso assembleare sui territori per spiegare la contrarietà all’accordo del 10 gennaio 2014. Si è iniziato a parlare di uno specifico “emendamento dal basso”, da presentare al Congresso, per chiedere una verifica democratica dentro l’organizzazione su quel testo. Condividi questa scelta? È ancora possibile dare battaglia in tal senso?

Gianni Rinaldini La condivido totalmente così come ho condiviso l’intervento che Maurizio Landini ha fatto al Comitato Direttivo. L’impianto di fondo dell’accordo del 10 gennaio è costruito in modo tale da poter andare al commissariamento della FIOM. Credo che sia ora di dirlo in modo esplicito! Perché la stessa clausola transitoria di arbitraggio è chiaro che ha come riferimento in primo luogo quella categoria. Sembra scritta da Fim, Uilm, Federmeccanica e Fiat. Non è possibile che mentre la FIOM – assieme a tutta la CGIL – decide di non concedere nulla alla Fiat sul piano delle sanzioni, adesso ci si ritrovi con un accordo confederale, che accetta le sanzioni e le impone di fatto alle categorie come condizione per accedere ai tavoli negoziali. Nessuno può far finta di non aver capito la questione che si è aperta, ne va dell’intelligenza di ogni dirigente. Il Comitato Direttivo ha persino ritenuto opportuno votare un documento che approva non l’accordo ma il regolamento attuativo – che se fosse un vero regolamento attuativo non si capisce perché deve approvarlo il Direttivo – e che si conclude con l’invito a diffonderlo e condividerlo nelle assemblee congressuali. E’ stata bocciata la proposta di un dirigente – che, fra l’altro, considera positivamente l’accordo del 10 gennaio – che prevedeva la sospensione del Congresso per venti giorni, così da permettere la consultazione degli interessati. Gli è stato risposto che ciò non si poteva fare, perché così si decretava la crisi della CGIL; a quel punto, l’attuale dirigenza ha presentato un documento che, non potendo utilizzare esplicitamente il termine “voto” – con il Congresso e i materiali congressuali già definiti – ha utilizzato il termine “condivisibile”. In gran parte delle regioni sono in corso riunioni dei Segretari generali delle Camere del Lavoro Territoriali e, nelle strutture territoriali, avviene cosa analoga con le categorie. Queste riunioni hanno un input preciso, da parte del nazionale: il documento uscito dal Direttivo deve essere votato nelle assemblee congressuali. Allora qui siamo di fronte all’inverosimile, al di là di ogni immaginazione, una vergogna che è fuori da ogni regola congressuale. Si vuole fare approvare un documento non previsto nei materiali congressuali, facendo votare gli iscritti su un testo che le lavoratrici, i lavoratori e i pensionati non conoscono, non sanno di che cosa si tratta. Una votazione che ha tutte le caratteristiche di quelle che si svolgevano nei paesi del blocco sovietico. Spero che si fermino, perchè ci vuole rispetto nei confronti dei lavoratori, delle lavoratrici e dei pensionati, che non possono essere presi in giro e utilizzati per gli interessi del gruppo dirigente. Per questo ribadisco che l’unica cosa seria sarebbe la sospensione del Congresso e la consultazione democratica degli iscritti interessati dell’accordo con la Confindustria, con il referendum preceduto dalle assemblee di confronto nel merito dell’accordo. Queste sono le condizioni normali, persino ovvie, di una Organizzazione democratica.

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