La peste nella mente

1 Gennaio 2021

[Amedeo Spagnuolo]

Ore 12.00, ho concluso le mie lezioni attraverso la didattica a distanza, ho bisogno assolutamente di prendere aria, sono chiuso nel mio studio dalle 8.00 cercando di stabilire un complicatissimo canale di comunicazione con i miei alunni che nello schermo del computer sembra che stiano nuotando in un acquario.

Lo sforzo per cercare di coinvolgerli nella discussione è almeno dieci volte maggiore rispetto a quando eravamo in aula, io non demordo e anche se mi rendo conto che alcuni di loro fingono di avere problemi di connessione e quindi spengono la telecamera del computer li chiamo di continuo in causa con domande a raffica che, dal mio punto di vista, dovrebbero suscitare in loro qualche interesse.

La maggior parte di loro non spegne la telecamera per “imboscarsi” ma, me ne sto convincendo sempre più, perché depressi, sfiancati da questa non imprevedibile pandemia che gli ha già tolto quasi un anno di vita vera, in verità l’ha tolto a tutti noi, ma un ragazzo di sedici – diciassette anni non può assolutamente vivere, esclusivamente, tra le quattro mura di una stanza, tale condizione anomala crea nell’adolescente un corto circuito esistenziale che, probabilmente, provocherà effetti collaterali poco simpatici che bisognerà imparare ad affrontare e risolvere, ma questa è un’altra storia ancora da scrivere.

Dicevo che dopo quattro ore trascorse a cercare d’insegnare qualcosa davanti al monitor di un computer, mi sento la testa “svuotata” e allora devo uscire per cercare di riempirla di un po’ di vita reale prima che si riempia pericolosamente di pensieri molesti. Vado a piedi, mi farà sicuramente bene camminare un po’, mi aiuterà a concentrarmi sul funzionamento del mio corpo piuttosto che continuare a farmi “martellare” dal mio cervello intossicato dalla dimensione virtuale.

L’aria fresca del mondo esterno mi ravviva, ciò che davo per scontato un bel po’ di mesi fa ora mi sembra un importante privilegio, non faccio in tempo a formulare questo pensiero che immediatamente vengo assalito da un’immagine che per qualche istante mi toglie il fiato, la mia memoria l’ha pescata da chissà quale telegiornale, un uomo anziano, “fame d’aria”, la bocca spalancata sotto il casco trasparente che gli consente di sopravvivere e le lacrime che fuoriescono copiose mentre un’infermiera e un medico cercano di calmarlo tenendogli la mano, quegli stessi medici e infermieri che nella prima “ondata”, la ben nota retorica italica, definiva angeli e che ora devono subire le aggressioni di demoni malati di fascio – negazionismo.

Comunque sia, alla fine riesco a cacciare via quel ricordo molesto o meglio decido di sostituirlo con un pensiero che mi dia la forza di oscurarlo, le letture di psicologia cognitivo – comportamentale servono sempre. Al centro della mia mente cerco di fissare un pensiero rilassante che mi riporta alla mente com’era la vita prima del covid, si tratta delle riunioni socio – politiche rese allegre e motivanti da qualche ottimo bicchiere di vino rosso bevuto nel bar preferito da me e dai miei amici e compagni. Decido di andare a quel bar, certo non per sedermi da solo, non sarebbe la stessa cosa.

La sorpresa è amarissima, è chiuso, chiedo informazioni al negozio vicino e la risposta mi gela: “ah non lo sai? Il covid, sono tutti in quarantena. Continuo a camminare, Nuoro non è mai stata una città “affollata”, ma adesso rimango impressionato dal vuoto che mi circonda, poche persone, pochi negozi aperti e questo splendido sole prenatalizio che non consola per nulla! Basta, rientro a casa, così mi faccio ancora più male, poi cambio idea e provo a fare qualche telefonata, le risposte sono tutte uguali, la sostanza è la stessa, cambia solo la forma: “scusa Amedeo stamattina ho già un impegno”, “guarda mi hai beccato proprio in un brutto momento, dai ti chiamo io appena posso”, queste le risposte “diplomatiche” poi però ci sono anche quelle schiette: “Amedè hai ancora voglia di andartene in giro con l’aria che tira” oppure “dai facciamo passare prima la buriana, meglio non rischiare!”. Li capisco, hanno paura, la stessa paura con la quale sto convivendo io ormai da mesi, ma come faccio sempre, ho voluto provare a non rifugiarmi anch’io in casa, ma non è possibile e allora al diavolo tutto e tutti, torno a casa e vediamo cosa succede…

Negli ultimi mesi ho letto molti articoli e interventi che dicevano più o meno la stessa cosa, la peste più che infettare il corpo infetta l’anima, entra nelle nostre teste e cambia, per sempre, la nostra percezione della vita. Poi m’imbatto, sempre casualmente, in una bella recensione di Antonio Gnoli, pubblicata su Repubblica e dedicata al libro del filosofo Sergio Givone intitolato Metafisica della peste. Gnoli dice: “Chiudo il nuovo libro di Sergio Givone –Metafisica della peste (Einaudi) – con la sensazione che qualcosa, negli ultimi anni, è accaduto nelle nostre teste. È come se il nostro paesaggio mentale abbia inasprito le parti più dolci e reso impervi certi percorsi psichici. I sentimenti si fanno più precari e inquietanti e ci rendono più deboli e più esposti al contagio. A quei focolai di paura e sfiducia che vediamo crescere intorno. In fondo, l’essenza della peste è nell’improvviso insorgere del timore del contagio. Tutto repentinamente muta.

L’ordine fin lì esercitato si riscrive in codici impensabili fino a un attimo prima. Il contagio richiama l’emergenza, lo stato d’eccezione, l’enigma”. Adesso mi è tutto più chiaro, è incredibile come anche una semplice recensione, letta casualmente, possa dare un senso ai nostri pensieri e alle passeggiate solitarie.

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