La realtà della Legge 180 è più forte di qualsiasi ideologia

1 Agosto 2021

[Alessandro Montisci]

Pubblichiamo la lettera di Alessandro Montisci, psichiatra e psicoterapeuta, ex Direttore del CSM Sanluri, del CSM Cagliari Ovest e del CSM Ales inviata al direttore de L’Unione Sarda il 20 giugno 2021 in risposta all’articolo del prof. Tondo apparso il 17 giugno.

In riferimento all’intervento apparso nella sezione “Cultura” de L’Unione Sarda di giovedì 17 giugno a firma di Leonardo Tondo: “Il sardo che deve stare al suo posto”, mi preme presentare alcune considerazioni che, spero, favoriscano un dibattito pubblico costruttivo fuori da inutili guerre ideologiche, rivolto soprattutto a coloro che direttamente o indirettamente conoscono il dramma che vive ogni famiglia quando si presenta “il problema” e che generalmente sono disorientati dal dibattito troppo ideologizzato che ha da subito accompagnato la Legge 180 del maggio 1978.

Premetto di non volere entrare in merito alla vicenda del concorso vinto e contestato dai triestini al collega e amico Trincas, così come non voglio cedere alla forte tentazione di polemizzare sulle dichiarazioni di Tondo spacciate per verità scientifiche insindacabili e che, invece, io considero altrettanto ideologiche quanto quelle che lui attribuisce ai triestini. Cercherò umilmente di delineare le questioni di fondo assai complesse che alimentano queste accese polemiche, consapevole dei limiti che comporta affrontare temi così complessi su un quotidiano.

La psichiatria con la Legge 833 del dicembre 1978 è entrata a pieno titolo nelle istituende Unità Socio-Sanitarie Locali lasciando le Amministrazioni Provinciali che gestivano gli Ospedali Psichiatrici e che poi verranno effettivamente chiusi solo 20 anni dopo nel 1998.

Ricordo ancora che negli Ospedali Psichiatrici non si veniva “internati” per motivi sanitari ma per motivi di sicurezza stabiliti dalla competente autorità; erede di questo ancestrale rapporto della psichiatria con la giustizia è l’attuale psichiatria forense.

Nel ‘900 le nuove scienze “Psicologia” e “Sociologia” apportarono enormi contributi alla psichiatria, vedi gli approcci psicoterapici (Psicodinamico, Cognitivista, Sistemico) e l’importanza attribuita ai determinanti sociali nell’origine e nel decorso del disturbo mentale. Così negli anni ’50 l’introduzione degli psicofarmaci determinò una svolta importante  suscitando anche eccessivi entusiasmi destinati poi ad essere nel corso degli anni alquanto ridimensionati.

Questi brevissimi cenni storici solo per fare capire che sì la psichiatria è una disciplina medica, ma guai a volerla ridurre solo a questo. La persona sofferente mentale non può e non deve essere ridotta ai sintomi e ad un inquadramento diagnostico, ma essa mantiene intatta la sua dignità e tutti i sui diritti iniziando dalla libertà, essendo poi, come tutti noi, il risultato di tutte le sue esperienze familiari, sociali, e di tutte le sue relazioni passate e presenti, essa ha sviluppato una sua soggettività unica e irripetibile che, più o meno consapevolmente, determina la sua visione del mondo e la sua collocazione in esso. Qui stiamo parlando delle questioni di fondo che riguardano tutti gli esseri umani: chi siamo, da dove veniamo, che ci stiamo a fare, dove andremo, questioni che non hanno e non possono avere risposte certe, questioni di senso che investono tutti i campi dell’agire umano: la scienza, la politica, la cultura, l’arte, l’economia, la filosofia, la religione, in pratica si tratta del mistero inconoscibile di ogni vita umana. Di conseguenza il nostro atteggiamento quando incontriamo il sofferente psichico deve essere improntato alla più grande umiltà e responsabilità, consapevoli di svolgere un ruolo delicatissimo quando ci relazioniamo ad una persona in condizioni di estrema fragilità che si affida a noi che esercitiamo su di essa un estremo potere sul suo destino di vita. Questa grande complessità e responsabilità non può e non deve essere lasciata al singolo specialista sanitario, alla sola sanità che si occupa di prestazioni più o meno appropriate e quasi mai degli esiti e del destino della persona, ecco pertanto la necessità del coinvolgimento di altri sguardi professionali: psicologi, educatori, assistenti sociali; ecco la questione centrale dell’integrazione socio-sanitaria: la sanità e il sociale non devono viaggiare su binari paralleli o, come spesso capita, addirittura in contrapposizione, ma devono veramente integrarsi funzionando come due facce della stessa medaglia. Il legislatore usando l’espressione “salute mentale” indica chiaramente l’obiettivo di non volersi limitare alla malattia e alle prestazioni ma di volere svolgere finalmente un’efficace azione preventiva sul singolo e sulla sua comunità ben sapendo come esse siano profondamente intrecciate e interdipendenti. La “Salute Mentale” integra veramente (o comunque ci prova) il sanitario con il sociale, la “Psichiatria” (specialmente quella accademica ma non solo) invece, come si evince chiaramente dall’articolo in discussione, rivendica la sua separatezza concependo il ruolo del tecnico in modo asettico, uno specialista che vive in un mondo dove esiste solo la malattia con i suoi sintomi e lui l’unico esperto capace di curarla, rigorosamente sempre in ambienti sanitari specialistici (ambulatori, ospedali, strutture). Il modello di riferimento è quello libero professionale che per pratica e cultura è totalmente agli antipodi della pratica e della cultura di un servizio di salute mentale di comunità, che proprio non riesce neppure a concepirlo.

Per fortuna la realtà è più forte di qualsiasi ideologia, così nella storia della psichiatria sono sempre esistite esperienze definibili “buone pratiche” in quanto centrate sulla persona malata e sempre rispettose della sua dignità e libertà; in Italia le troviamo in tutte le regioni e anche la Sardegna ne ha un ricco campionario; ma le buone pratiche di salute mentale, fondate sulla reale integrazione del sociale nel sanitario, sul protagonismo dei soggetti nei loro percorsi di cura, sulla capacità di creare le condizioni per l’inclusione sociale (lavoro, casa, relazioni), sono dipendenti dalle buone politiche di salute mentale, e qui, purtroppo la Sardegna è particolarmente carente. Così è successo che tante belle esperienze nate un po’ in tutti i territori non si sono potute sviluppare e, a volte, sono finite senza neppure essere riuscite a lasciare traccia.

Voglio concludere ponendo in buona fede una sola domanda all’autore dell’articolo: quando scrive di “piccole” percentuali di pazienti con disturbi insensibili alle terapie, si riferisce alla sua esperienza personale o fa riferimento a studi scientificamente validati?

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