La sofferenza dei giovani e la superficialità degli adulti al tempo del Covid

16 Maggio 2021

[Amedeo Spagnuolo]

Ormai è da oltre un anno che viviamo in questa dimensione “sospesa”, osservando i miei amici che ormai vedo di rado, provo una grande tenerezza per loro, ma soprattutto per me.

Cerchiamo di andare avanti dando fondo a tutte le nostre energie mentali che cominciano a scarseggiare e così facendo, quando c’incontriamo, cerchiamo di non parlare troppo del covid e della paura che ogni giorno ci accompagna. Non solo la paura del contagio ma anche la paura che il nostro modo di vivere cambi definitivamente e ci costringa a vivere per sempre “mascherati” e distanziati.

Fin dall’adolescenza sono stato un appassionato delle storie apocalittiche e ancora adesso, nonostante la pandemia, continuo a essere attratto dalle narrazioni che parlano di mondi che stanno per finire. Sabato scorso però, mentre guardavo “Anna”, la stupenda trasposizione filmica del libro di Niccolò Ammaniti, sono rimasto sbigottito nell’apprendere, leggendo i titoli di coda, che le riprese della serie televisiva, nella quale si parla, appunto, di un virus che sta annientando il genere umano, sono iniziate appena sei mesi prima dell’inizio della pandemia. A quel punto la finzione televisiva è diventata a un tratto reale e ciò che osservavo era ciò che vivevo per cui sono stato costretto a cambiare canale poiché la suddetta consapevolezza mi aveva reso insopportabile la visione di quel capolavoro narrativo potente e suggestivo. Dopo aver spento la televisione, poichè non ho trovato un’alternativa valida, ho preso il mio smartphone e ho cominciato a bighellonare in maniera piuttosto frustrante sul web, ma in quel momento non potevo fare altro, avevo bisogno di un po’ di sana superficialità che mi aiutasse a non pensare.

Vagando senza meta nello sconfinato oceano virtuale, a un certo punto sono approdato in un luogo nel quale mai sarei voluto arrivare considerando il cupo stato d’animo che mi assillava. Si trattava di una notizia riguardante la cosiddetta “sindrome della rassegnazione” che ha colpito di recente, soprattutto in Svezia, tanti bambini, figli di rifugiati, soprattutto siriani che alla notizia che gli era stato negato il permesso di soggiorno sono caduti in un profondo torpore, incapaci di reagire a qualsiasi stimolo e costretti a essere alimentati con il sondino. Insomma una sorta di resa di fronte alle sofferenze che le nostre società evolute procurano senza pietà alla parte più fragile della popolazione mondiale. Per cause diverse, ovviamente, è quello che sta accadendo ai nostri ragazzi al tempo della pandemia, è notizia di questi giorni il ricovero di decine di bambini e adolescenti nei reparti di neuropsichiatria infantile che non riuscendo più a reggere la pesante situazione d’isolamento e paura provocati dal covid in qualche maniera, anche loro, si “rassegnano” e non riescono più a lottare contro questo mostro che sta devastando le loro e le nostre vite.

Il filosofo Roberto Mancini afferma che possiamo porre un qualche argine alla rassegnazione solo se educhiamo gli esseri umani, fin da bambini, a reinventarsi, quando è necessario, la vita, sviluppare insomma l’immaginazione che è l’unica facoltà a nostra disposizione per contrastare un’esistenza divenuta ormai insopportabile. Un altro filosofo che ha parlato in maniera profonda delle difese da attivare contro la deriva della rassegnazione è Ernst Bloch che nella sua monumentale opera, “Il principio speranza”, sottolinea il fatto che senza la speranza e quindi senza una visione utopistica l’uomo non sarebbe mai riuscito a progredire e a liberarsi, almeno nelle società democratiche, da tante nefandezze che per secoli hanno contraddistinto le società umane come lo schiavismo, la tortura, il genocidio ecc. Certo il cammino non è stato completato e in molti luoghi della Terra il male è ancora molto forte e dominante, meno male che la visione utopistica, che aiuta tutti noi a cercare senza posa una strada che possa rendere la nostra vita meno agra e faticosa, riesce ancora a sopravvivere.

Il fenomeno riguardante le conseguenze psicologiche della pandemia sui bambini e sugli adolescenti,  non è stato ancora studiato in maniera adeguata e non poteva che essere così visto che ci siamo ancora dentro fino al collo e ci manca il necessario distacco storico che ci consentirebbe di comprendere meglio quello che ci sta accadendo, però di una cosa sono sicuro, dobbiamo smetterla, noi adulti, di avere un atteggiamento, molto spesso, poco attento nei confronti di queste giovani vite figlie della pandemia, ci sono ancora troppe persone “adulte” che si soffermano esclusivamente sulla superficialità dei giovani, sulla loro incoscienza quando si abbracciano e si abbassano la mascherina. Ma vogliamo parlare un po’ dell’incoscienza e della superficialità degli adulti che, tra le altre cose, non sono riusciti nemmeno a prepararsi adeguatamente ad affrontare un evento pandemico che si sapeva, da sempre, prima o poi sarebbe arrivato. Infatti, gli adulti sono talmente seri e profondi che sono stati capaci di nascondere il fatto che l’ultimo piano pandemico in Italia risaliva al 2006.

Invece di fare i maestrini e le maestrine perché non proviamo a pensare cosa avremmo fatto noi alla loro età invece di sparare bordate sui ragazzi che ancora credono che abbracciarsi sia la più bella espressione di solidarietà che possa esistere tra gli uomini. Certo, lo sappiamo tutti che adesso non lo possiamo fare, però, cari soloni del mondo adulto al quale appartengo e un po’ me ne vergogno, perché non proviamo a dare un po’ di calore a questa gioventù sfortunata, si può dare calore anche senza abbracci, ma soprattutto perché non la finiamo di essere così egoisti e invece di pensare solo al nostro presente non pensiamo un po’ di più al loro futuro?

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