L’Acqua alla fine del mondo

16 Febbraio 2013
Elvira Corona*
Hidroaysén è una società che si autodefinisce “il più grande progetto energetico del Cile”. Fondata nel 2006 col proposito di generare “un importante potenziale di energia pulita e rinnovabile”  è oda anni ggetto di forti critiche da parte della società civile del paese latinoamericano che si è attivata per dire no al mega progetto che prevede la costruzione e gestione da parte di Hidroaysén di cinque centrali idroelettriche, due nel fiume Baker e tre nel fiume Pascua.
Si tratta di due tra i più importanti fiumi per portata d’acqua che scorrono nella Patagonia cilena e che vengono alimentati dai ghiacciai Campo de Hielo Norte y Campo de Hielo Sur. Zona affascinante quanto inospitale, che – escludendo i poli – conserva la più grande quantità di acqua del globo terrestre, ma anche una grande varietà di animali e piante che mantengono una biodiversità unica al mondo.  Biodiversità che secondo gli ambientalisti che si sono attivati in una campagna contro il progetto, andrebbe completamente perduta se il progetto venisse davvero realizzato, cambiando per sempre l’aspetto di una delle zone finora più incontaminate del pianeta.
Per questo la campagna Patagoni sin represas – composta da circa 70 organizzazioni – ha lanciato un appello internazionale per difendere questa zona ai confini del mondo, appello che è stato accolto anche da una rete di organizzazioni italiane che ha costituito la campagna italiana Patagonia senza dighe.
Ma cosa dovrebbe importare a noi italiani di quello che succede in un paese così lontano da noi?In realtà parecchio, perchè in un mondo sempre più interconnesso il nostro coinvolgimento va al di là della sensibilità per questo genere di tematiche.  La Hidroaysén infatti è formata da Colbun per il 49% e per il 51% da Endesa, società spagnola che fa capo all’italiana Enel  che la controlla per il 92% che a sua volta è partecipata per il 13,7% dal Ministero del Tesoro e per il 17,4% dalla Cassa Depositi e Prestiti: insomma lo Stato italiano, cioè noi comuni cittadini la controlliamo per oltre il 31%. Già questi dati dovrebbero bastare a renderci responsabili per un progetto che sta minacciando una delle risorse più importanti del pianeta. Ma se non dovesse essere sufficiente basta andare un pò più a fondo alla questione per scoprire che in realtà il Green Power, tanto reclamizzato dalla nostrana, Enel in realtà nasconde solo grandi affari economici.
Si sta approfittando di un paese come il Cile, che sta ancora facendo i conti con la democratizzazione delle istituzioni e una Costituzione di stampo neoliberale lasciata in eredità della sanguinosa dittatura di Augusto Pinochet, è facile capire che non preveda nessun tipo di tutela per l’ambiente. Ma c’è di più: dalla fine della dittatura in poi cariche politiche e vertici di aziende si sono facilmente interscambiati, mirando a salvaguardare i grandi interessi economici. Prova ne è il fatto che l’attuale presidente del Cile, Sebastian Piñera è – secondo la rivista Forbes – uno dei più ricchi imprenditori del paese, proprietario della compagnia aerea Lan e di vari canali televisivi.
Questione molto controversa è poi la campagna mediatica che sta conducendo la società Hidroaysén ma anche il governo cileno. Si fa credere alla gente che il Cile abbia bisogno di più energia e che questo megaprogetto sia l’unica soluzione. In realtà uno studio condotto da esperti del settore energetico dell’Università di Santiago (in.pdf) presentato già a metà 2009, dimostra che il progetto Hidroaysén non è una necessità. Secondo le stime della Commissione Nazionale sull’Energia il fabbisogno energetico del Cile nel 2025 sarà pari a 22.736 MW.
Lo studio esamina tutti i progetti di generazione già approvati dalle agenzie governative e a questi si aggiungono altri progetti già in fase di valutazione ambientale che porteranno la capacità di generazione elettrica nazionale a 23.080 MW, un potenziale addirittura maggiore delle stime della Commissione. La motivazione più vicina alla realtà sembra essere invece che tutta questa energia sia necessaria per le grandi società – spesso multinazionali – che si occupano dell’estrazione mineraria nel nord del paese. Sopratutto le miniere di rame – di cui il Cile è il più grande esportatore – come la San Esteban conosciuta a tutti per la brutta avventura – per fortuna a lieto fine – dei 33 minatori rimasti quasi tre mesi nelle viscere della terra nei pressi di Copiapò.
Il progetto HidroAysén infatti non ha nulla a che vedere con la popolazione locale dato che oltre alle 5 dighe prevede anche una rete per il trasporto dell’energia nel nord del paese, lunga oltre 2000 km e cheoltre al deturpamento ambientale costerà 3200 milioni di dollari. Nessuna delle 9 regioni impattate dal progetto beneficerà dell’elettricità prodotta. HidroAysén prevede solo uno sconto sulla bolletta energetica, anche se ora sta cercando di aumentare i vantaggi per la popolazione in cambio di una non opposizione al progetto.
La costruzione di grandi infrastrutture come le dighe sembra seguire una strategia ormai consolidata per produrre energia in luoghi scarsamente popolati, dove risiedono comunità storicamente marginalizzate, che dopo aver subito l’invasione straniera, e lo sterminio della popolazione locale ora si pianifica lo sfruttamento ambientale, sociale, culturale. Sorte già toccata alla parte argentina della Patagonia ridotta a un infinito pascolo di pecore da lana (anche qui le responsabilità italiane non mancano) intervallato solo da pozzi di petrolio e gas.
La società civile cilena che si oppone con forza al progetto è più volte scesa in piazza negli ultimi anni, e finora è riuscita a non far partire il progetto. Un risultato straordinario che però non dà ancora alcuna certezza. Tra i forti oppositori al progetto anche il vescovo della regione dell’Aysen Luis Infanti de la Mora,  – autore del libro “Dacci oggi la nostra acqua quotidiana”eito dalla Emi –  che qualche settimana fa ha inviato una missiva al governo cileno – che entro breve dovrà esprimersi a riguardo – chiedendo di bloccare il progetto e di chiedere il riconoscimento della  Patagonia come Patrimonio dell’Umanità e Riserva di Vita.

*Elvira Corona è una giornalista free lance che si occupa di America Latina. Già autrice di un reportage dall’Argentina Lavorare senza padroni, edito dalla Emi, ha  appena lanciato una campagna di Crowdfunding con Produzioni dal basso per realizzare un nuovo reportage in Cile. L’obiettivo è quello di raccogliere le voci delle persone che si oppongono al progetto, ma anche dare una panoramica del Cile a 40 anni dalla morte di Salvador Allende. E’ possibile partecipare al progetto seguendo questo link.

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