Autenticità e protesta di Laetitia Sadier

1 Settembre 2014
Laetitia Sadier
Francesca Lodge

Era quasi riverente l’atmosfera che circondava ieri sera il concerto o meglio la “solo performance” di Laetitia Sadier a Piazza della Juharia, l’uditorio già pronta ad accogliere con plauso una delle voci piu importanti della musica contemporanea indipendente. Di Laetizia a colpirmi per prima è la voce che riempie la piazza e si innalza oltre. L’apparenza è sobria ma il taglio di capelli fiero quasi maschile, il pullover nero sulla gonna fluttuante mi dicono gia che Laetitia ha autenticità intelletuale e che con pacatezza ci invita a essere partecipi, a essere diversi, a non metterci in fila, a non dormire cullati dal suono monotono della televisione, dei mass-media, dei rotocalchi. Sono un ricordo i giorni di Sterolab e di French Disko nel lontano 1998 eppure Laetitia continua a parlare di resistenza.
La chitarra è dolce, quasi un organo. Fra le vecchie mura, s’innalza come un inno e un’accusa la melodia di The Rule of the Game, il brano di biasimo rivolto alle classi ricche per aver favorito il fascismo. Poi affida all’uditorio di Alghero la sua canzone inedita Super-rich che parla delle mani rapaci dei ricchissimi e chiede: “e se i ricchi non ci fossero ci sarebbe la poverta?”
Fra un brano e l’altro una dichiarazione politica – si ricorre al fascismo quando c’è la fame, la crisi – e un invito a stare attenti. L’ovazione è prolungata e sincera, lei umile ringrazia si allontana, ritorna solo quando è sicura che loro la vogliono sentire ancora. Alla fine del concerto l’avvicino le chiedo un’intervista.
Da quanto fai musica? È la mia prima domanda ai limiti del banale; la risposta è già una chiave di lettura – “Dal 1990. Ho cominciato a fare musica a Londra. A Parigi si parlava tanto di musica, ma tutto era teorico e un po’ snob. A Londra invece ti prestavano un amplificatore e ti univi a chi come te voleva esprimersi, creare. Londra era ancora “wild” anticonformista, selvaggia. C’era il caos e nel caos la possibilità di esprimersi liberamente. Parigi invece ti castrava. Poi ho avuto la fortuna di produrre per Electra con gli Stereolab. Electra ci dette la libertà di creare, non come i piccoli produttori che vogliono solo far cassa. Io scrivevo le liriche di Sterolab, ma volevo fare musica e cosi nacque Monade per sfuggire alla dittatura di Tim che mi voleva solo come voce e per scrivere le liriche”.
Alla mia domanda se Londra è ancora così libera e creativa lei risponde con uno sguardo triste “Oggi i produttori vogliono solo far soldi e gli artisti sono ridotti a sopravvivere, si svendono. E poi, nessuno più compra i dischi!…”
Le chiedo se ha mai studiato musica “Sì, certo a Punk School”. Non so dove si trova questa Punk School. Lei ride. “No, è un nome che ho coniato io – Punk School-. È la scuola che fai da sola quando hai una passione, quando senti il desiderio la voglia di esprimerti! Per questa non ti serve un’istituzione ti serve solo la voglia, la capacità di creare” – “Parlando di Punk” le dico, “la tua filosofia mi sembra molto diversa”.
Lei mi risponde seria: “Il Punk lo so, è un movimento nichilista, non crede. Ma è nato come reazione a Reagan, a Margaret Thatcher che parlavano solo di mercato. Come se la felicità, il benessere ne fossero diretti derivati. Invece è tutta una grande menzogna!”
“Che cosa ti ispira?” Gli occhi neri e grandi si colmano di luce e mi risponde “Il desiderio di armonia. La voglia di raddrizzare tutto. Questa società è storta. Perche siamo nella m… (in the shit!) … in quella vera! La musica ha trasformato la mia vita, l’ha guarita”.
“Quando hai capito che volevi fare musica? “A 14 anni ma solo a 18 ho cominciato”.
“Hai un messaggio per i giovani di oggi? Qualcosa da proporre loro?”
Laetizia mi guarda pensosa poi lentamente mi dice: “Non posso insegnare le cose alle quali dovranno arrivare da soli, come ciò che per me è più importante: l’amore. Dovranno arrivarci da soli con il passare degli anni. Io ai giovani di oggi posso solo dire di pensare. Esortarli a pensare! Abbandonino i loro I- phones e che leggano. Leggano libri di spessore”.
“Laetizia che cosa ti fa più paura?”
“La paura stessa. Perché è un sentimento che soffoca l’energia, la creatività. Ho paura del fascismo, mi fa paura il sistema. L’amore invece è per me un’ispirazione. L’amore crea. L’amore è quel sentimento che di fa levitare, che innalza in nostri spiriti. Che ci rende migliori. La mia creativita’ si nutre delle manifestazione d’amore. Dobbiamo aprire il cuore. Dare e ricevere amore.”
La mia ultima domanda è riservata a capire se Laetizia vuol dare una denominazione politica alle sue idee: “E’ chiaro che sono di sinistra ma mi è difficile essere più specifica. I partiti politici dividono, invece io voglio l’unione e poi non amo il catechismo che sta dietro ai partiti. Dobbiamo unirci per cambiare lo status quo. Sento il bisogno di svegliare una società che dorme cullata dai rotocalchi, dalla televisione, che vive nell’oblio. In questa fase è troppo presto per parlare di colore politico”.
Guardo l’orologio, qualcuno già la chiama. Al ristorante tutti l’aspettano. Tutti la vogliono. Non si incontra tutti i giorni una star da questa parti. Non una così disponibile, umile e vera.
Ci salutiamo. Ma prima di lasciarla le chiedo così quasi per scherzo: “E di Hollande cosa ne pensa? È felice che la Francia abbia un premier di sinistra?”
Si ferma, il viso imbronciato “Ma che! È uno di destra…”.
Dentro di me la ringrazio. Grazie Laetizia Sadier, poetessa e musicista, per aver creato con il tuo ardore e la tua infinita creatività e tenerezza alcuni dei brani musicali più belli di questo ventennio.
Che siano le sue parole a concludere:

“Ceci est le coeur
Et dans mon coeur il y a
Un grand desert rouge
Fouette par la tempte
Desert crepu de sable vermeille”

(ecco il cuore e dentro il mio cuore
c’è un deserto rosso segnato dalle intemperie,
deserto di sabbia screpolata e vermiglia).

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