L’artigianato nel mondo moderno

16 Luglio 2015
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Gianfranco Sabattini

Il lavoro artigianato rappresenta uno dei tratti distintivi della cultura e dell’economia italiana. […] Se è vero che esiste un consenso diffuso nel riconoscere il peso culturale di un saper fare manuale ancora radicato, si percepisce un certo imbarazzo nel declinare al futuro un’eredità, quella dei mestieri artigiani italiani, sentita da molti come ingombrante”. Questo è l’incipit del volume, di recente pubblicazione, “Futuro artigiano.

L’innovazione nelle mani degli italiani”, di Stefano Micelli, docente di Economia e gestione aziendale presso l’università Ca’ Foscari e studioso del design e della creatività, assunti quali fattori su cui fondare il rilancio competitivo delle piccole e medie imprese italiane. L’idea di fondo che connota il libro è che “la competitività del nostro sistema industriale […] è ancora oggi intimamente legata a competenze artigiane”. Queste competenze rendono la nostra manifattura flessibile e dinamica e, dunque, idonee a consentire, da un lato, l’adattamento dell’esercizio delle attività economiche alla logica di funzionamento “post-fordista” del mercato e, dall’altro, l’affermazione della qualità dei prodotti del settore manifatturiero e di quello industriale dell’economia italiana nel mondo globalizzato.

Secondo l’autore, questo obiettivo può essere realizzato senza alcun ritorno al passato; ciò significa che la valorizzazione del lavoro manuale può essere conseguita senza alcuna nostalgia per “il tempo che fu”, ma anche senza la conservazione di un qualche legame del lavoro artigiano alla piccola dimensione d’impresa. Pertanto, se è vero che ancora oggi esistono in Italia molte piccole imprese in cui si esercitano i mestieri tradizionali, esiste però anche un lavoro artigiano in grado do dare qualità e capacità a “tante medie e grandi imprese che, pur contando su scala dimensionale, affidano a competenze artigianali compiti fondamentali per il loro successo sul mercato”.

Nella prospettiva di analisi di Micelli, il nuovo artigianato, slegato dalla tradizione e dalla piccola dimensione, si configura come punta di diamante “di un movimento che si propone di ridefinire le categorie dell’innovazione”, perché la classe politica le rilevi e le valuti, soprattutto ai fini della formulazione di politiche pubbliche volte a favorire il superamento dell’attuale fase critica dell’economia nazionale.

Questa prospettiva, per quanto suadente e coinvolgente, espone il fianco ad alcune osservazioni critiche, sia sul piano analitico, per la carente definizione di impresa artigiana; sia su quello operativo, in quanto, proprio per tale carenza, nella formulazione delle politiche pubbliche volte a conformare l’economia italiana alla logica di funzionamento dell’economia mondiale post-fordista, non può essere colta la specificità dei problemi relativi ai diversi segmenti in cui la crisi in atto ha scomposto buona parte dei comparti manifatturieri ed industriali dell’economia nazionale.

La crisi, infatti, ha fatto emergere alcuni mali endemici, propri della struttura produttiva italiana, costruita e plasmata all’insegna dell’idea che il “piccolo è bello”; ciò ha comportato che il sistema economico italiano, attraverso la proliferazione di attività produttive di piccole dimensioni, si espandesse sino all’avvento, alla fine degli anni Settanta, del processo di integrazione delle economie nazionali nel mercato mondiale. L’approfondirsi della globalizzazione ha fatto emergere i molti motivi di debolezza strutturale dell’economia italiana, il cui superamento ha lasciato, e continuerà a lasciare, “per strada” molte piccolissime e piccole realtà produttive. La gestione di queste, più che una loro proiezione internazionale attraverso un’attività innovativa slegata dalla tradizione e dalla dimensione, implica il ricupero, per esigenze di natura economica e sociale, di quei connotati del saper fare manuale che, secondo Micelli, dovrebbero invece essere messe da parte: in particolare, una definizione di impresa artigiana che consenta la comprensione della reale natura dei rapporti tra il lavoro artigiano tradizionale con i restanti fattori produttivi dei quali l’artigiano si avvale nella conduzione della sua attività.

Una definizione di impresa artigiana fondata su “elementi sindacali” (come il numero dei dipendenti, la dimensione d’impresa, il fatturato, ecc.) agisce in senso negativo sulla comprensione, dal punto di vista economico, del lavoro artigiano tradizionale, in quanto impedisce di “catturare” la sua dimensione prevalentemente soggettiva. Per il superamento di tale limite, occorre considerare il lavoro artigiano attraverso le caratteristiche assunte dalla sua dinamica in rapporto agli altri fattori della produzione presenti nella combinazione produttiva dell’impresa artigiana. La peculiarità di quest’ultima consiste nel fatto che, a differenza di quanto avviene nelle imprese non artigiane, la dinamica della combinazione produttiva è concentrata sul fattore lavoro; ciò significa che, con riferimento a tale impresa, occorre distinguere la “dinamica imprenditoriale” o “innovazione imprenditoriale”, comune a tutti i tipi di impresa, dalla “dinamica del fattore lavoro”, che nell’attività artigianale si caratterizza in termini di variabilità e di non standardizzazione tali da portare ad una continua diversificazione innovativa del prodotto, in presenza di una tecnica produttiva stazionaria.

In questa prospettiva va considerato il problema dell’impresa artigiana e del lavoro di cui essa si avvale; sia l’una che l’altro sono caratterizzati dal fatto d’essere associati ad una tecnica produttiva stazionaria, combinata con un’elevata dinamica del fattore lavoro; caratteristiche, queste, che connotano l’artigianato tradizionale, sia quello artistico che quello più propriamente usuale.

Il primo ha una sua specifica configurazione, la cui conservazione è strettamente legata alla stazionarietà della dinamica imprenditoriale e ad una dinamica continua del fattore lavoro; se quest’ultima venisse meno, le imprese artigiane artistiche passerebbero nel novero di quelle usuali. Queste ultime continuano a presentare una tendenziale stazionarietà della dinamica imprenditoriale, ma in esse, a differenza di quelle artistiche, la dinamica del fattore lavoro riveste la funzione di allestire prodotti che le attività produttive industriali moderne non hanno più convenienza a produrre. Per quest’ultimo motivo, l’artigianato usuale è di transizione, in quanto la sua conduzione imprenditoriale può divenire tanto dinamica da rendere sfumata, sino a farla scomparire, la distinzione tra artigianato usuale e piccole e medie imprese.

Se si considerano le osservazioni sin qui svolte sulla natura dell’impresa artigiana e del lavoro che vi si esplica, allora la prospettiva di analisi di Micelli, come già si è detto, merita qualche puntualizzazione; ciò in quanto essa risente di un approccio al problema della futura crescita del settore manifatturiero e industriale italiano che ben si adatta ad un comparto produttivo particolare, ovvero al comparto del “fashion design”. E’ sicuramente vero – come osserva Micelli – che l’identificazione dell’artigianato con la piccola impresa comporta una “grave distorsione nel dialogo con le istituzioni e la politica”; ciò perché se si imbocca “un percorso di tipo sindacale che tende a porre in secondo piano gli elementi specifici della competitività del lavoro artigianale”, è inevitabile che artigiani e piccole imprese finiscano con l’essere confusi nella classe indistinta dei cosiddetti “piccoli” operatori, perdendo di vista il fatto che tra essi esistono “artigiani che producono ceramiche di valore artistico con tecniche tradizionali e artigiani che producono cassonetti per rifiuti grazie a piccole catene di montaggio”.

Sia i primi che i secondi – sostiene Micelli – hanno un potenziale di crescita, ma in direzioni diverse; i primi possono crescere e farsi spazio consolidando il vantaggio competitivo in modo strettamente connesso alla “personalizzazione del prodotto”, mentre i secondi possono consolidare il loro vantaggio attraverso la realizzazione di economie di scala, mediante “impianti e processi produttivi con forti iniezioni di capitali”, esercitando l’innovazione imprenditoriale, nella loro combinazione produttiva. Nell’uno e nell’altro caso si ha a che fare con “piccoli operatori” che richiedono però politiche pubbliche molto diverse tra loro. Giusto!

Ma le differenze esistenti tra le due categorie di artigiani indicate da Micelli, non consentono che entrambe possano essere connotate come attività artigiane tout court. La prima categoria è realmente costituita da artigiani caratterizzati da un’alta dinamica del fattore lavoro inserito in una combinazione produttiva statica, mentre la seconda categoria, includendo operatori (anche se di piccola dimensione) che in virtù della loro innovazione imprenditoriale imprimono un continuo cambiamento alla combinazione produttiva adottata, è costituita da imprenditori in senso schumpeteriano. In tal senso devono essere intesi sia gli “analisti simbolici” che i “creativi” cui accenna Micelli, la cui attività creativa non dipende tanto dall’innovazione del lavoro, quanto dalla dinamica della combinazione produttiva, conseguente all’impiego di quote crescenti di capitale, della quale gli “analisti” ed i “creativi” si avvalgono.

In conclusione, ai fini della formulazione di appropriate politiche pubbliche volte a favorire la riorganizzazione dei comparti manifatturieri ed industriali dell’economia italiana, in funzione di un loro crescente livello di internazionalizzazione, conviene non estendere la denominazione di artigianato e di impresa artigiana ad ogni tipo di attività produttiva, nella presunzione che solo in questo modo possa essere salvaguardata la dimensione umana del fattore lavoro. Tenere distinti i due tipi di lavoro, quello artigiano e quello non artigiano, non significa fare pesare sul primo una discriminazione ideologica; serve invece ad aumentare il livello di adeguatezza e di appropriatezza delle politiche pubbliche, rispetto alle specifiche criticità delle attività produttive verso cui si indirizzano, evitando che l’enfasi posta sulla “dimensione del pezzo unico non replicabile” possa affievolire gli effetti attesi di tali politiche, finalizzate a una ristrutturazione e ad una modernizzazione in generale dell’intero sistema produttivo.

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