L’attualità del pensiero marxiano contro le ineguaglianze sociali

1 Febbraio 2018
[Gianfranco Sabattini]

Sul periodico domenicale del “Corriere”, “La Lettura”, del 10 dicembre scorso, sono state pubblicate diverse valutazioni del pensiero di Karl Marx, nel bicentenario della sua nascita (1818); anche se le ragioni non sono esplicitate, è facile arguire che lo scopo dell’iniziativa editoriale sia stato quello di giudicare se quel pensiero possa essere ancora oggi utilizzato, per avere “suggerimenti” circa la “cura” dei mali che affliggono le società del mondo attuale.

Sono stati invitati a pronunciarsi quattro “studiosi dalle idee diverse”: Stefano Petrucciani, Antonio Moscato, Giovanni Codevilla e Dario Antiseri. Nei loro contributi emerge chiara la diversità di pensiero che li ispira; specialmente in quello di Giovani Codevilla e Dario Antiseri aleggia il “clima conflittuale”, di natura ideologica, che ha caratterizzato l’intero XX secolo e che continua ancora oggi a condizionare il discorso pubblico sui problemi di rilevanza sociale, sebbene i motivi del configgere tipici del passato siano stati trascesi dalla storia.

Per meglio valutare l’attualità dell’analisi critica e propositiva del pensiero di Marx, va sottolineato che i problemi per i quali esso rivela un’indiscussa attualità sono quelli sorti a partire dalla Rivoluzione Industriale, occorsa a cavallo dei secoli XVII e XIX, ovvero quello della giustizia sociale e quello della democrazia, la cui soluzione ha polarizzato maggiormente l’attività politica; ma, è anche utile verificare se, nel pensiero marxiano, è possibile rinvenire suggerimenti atti a spiegare e a risolvere quei problemi, affrancandolo dagli “inquinamenti leninisti” che, in alcune valutazioni degli autori citati, sembrano aleggiare, sino a formulare giudizi che a Marx non sono riconducibili.

Il “leninismo” è un adattamento della concezione materialistica e dialettica della storia, elaborata da Marx, alle condizioni sociali ed economiche proprie della Russia all’epoca della Rivoluzione bolscevica del 1917. E’ noto come, secondo Marx, le forze produttive si sviluppino più rapidamente dei rapporti di produzione, per cui la contraddizione che si instaura tra le prime ed i secondi portano inevitabilmente ad una rivoluzione sociale. Come conseguenza di ciò, si avrà che, nel capitalismo maturo, la contraddizione tra le forze produttive (espresse dalla forza lavoro) e i rapporti di produzione (espressi dalle forme di impiego e di sfruttamento della forza lavoro perpetrate dalle forze imprenditoriali) creerà le condizioni favorevoli a una rivoluzione destinata a segnare l’avvento della società socialista.

All’inizio del XX secolo, la Russia, aveva perso molti dei caratteri propri di un’economia signorile e acquisito alcuni di quelli propri di un’economia capitalistic; non poteva dirsi, tuttavia, che il suo sistema economico presentasse la complessità dell’organizzazione del capitalismo moderno, qual era, ad esempio, quello inglese o quello francese. Quindi, nell’anno della Rivoluzione (1917), l’economia russa non poteva esprimere i rapporti di produzione che sarebbero stati necessari perché il sistema evolvesse spontaneamente in senso socialista.

Alla mancanza di queste condizioni, ha provveduto l’ideologo rivoluzionario Vladimir Lenin, sostenendo che occorreva supplirvi, volontaristicamente, con la creazione di un partito costituito da rivoluzionari professionali, la cui azione, sostituendo le forze dialettiche che Marx assumeva come intrinseche al processo storico, avrebbe determinato, nell’interesse della classe operaia, l’avvento della società e dell’economia socialiste. E’ stato questo il corpus ideologico per cui la concezione materialistica e dialettica della storia condivisa dai rivoluzionari russi non sarà il marxismo tout court, ma il marxismo-leninismo, in proseguo diventato marxismo-leninismo-stalinismo, per gli “aggiustamenti ulteriori” che vi saranno apportati da Josif Stalin.

In sostanza, si è trattato di un corpus ideologico costruito in funzione del riscatto di una “classe operaia”, intesa non come categoria storica e sociologica, ma come categoria astratta e ideologica, attraverso la quale i principali protagonisti della Rivoluzione russa del 1917 hanno potuto affermare l’esistenza di una l’”legalità rivoluzionaria”, con la quale hanno legittimato la pratica di un terrorismo politico, esercitata anche, e forse soprattutto, nei confronti della stessa classe sociale della quale affermavano di essere i “difensori. Si è trattato quindi di un corpus ideologico che, senza voler fare della storia controfattuale, è da ritenersi fondatamente estranea alla prospettiva della realizzazione di una società giusta e democratica preconizzata da Marx.

Riguardo al doppio problema della giustizia sociale e della democrazia, alcuni degli autori precedentemente indicati tendono a valutare il pensiero marxiano, sulla base del metro del socialismo realizzato nella ex URSS; ciò tende a fare emergere delle “forzature” valutative che hanno l’unico effetto di spingere il lettore a ricondurre al pensiero di Mrax il socialismo realizzato nell’ex Unione Sovietica.

Riguardo al problema della democrazia, è vero che, nel secolo scorso, Norberto Bobbio in “Quale socialismo?”, aveva lamentato la mancanza nel pensiero marxiano di una teoria dello Stato e della democrazia socialista; tuttavia, non è possibile negare che Marx, sia pure in ordine sparso nei molti suoi scritti, abbia spesso sottolineato che le procedure democratiche potevano rappresentare uno strumento valido attraverso il quale la classe operaia poteva migliorare la propria condizione con mezzi pacifici. Partendo da queste considerazioni, è quindi possibile sostenere che nel pensiero di Marx, per quanto riguarda la cura degli interessi degli esclusi (che in lui coincidono con la classe operaia) coesistano due alternative: una rivoluzionaria e un’altra aperta al confronto politico ed elettorale.

Tra l’altro, proprio nel Manifesto, Marx afferma che il primo passo nella rivoluzione della classe operaia è il suo elevarsi a classe dominante per la conquista della democrazia; questo è, dunque l’obiettivo del suggerimento marxiano per rimediare alle ingiustizie sociali della società costruita sulla base dei principi affermatisi con la Rivoluzione borghese del 1789. Tenendo conto di queste osservazioni, si può allora attribuire al pensiero marxiano il suo originario significato, affrancato dalle interpretazioni non disinteressate di parte sovietica o di molta critica occidentale di parte liberale (o neoliberista).

E’ vero, tuttavia, che gli apprezzamenti di Marx sulla democrazia non devono essere interpretati come una incondizionata accettazione della democrazia liberale; egli, infatti, suggerisce la “conquista” del potere da parte della classe operaia, per avviare una profonda trasformazione della società, che non è solo economica e sociale, ma anche politica, finalizzata ad una progressiva trasformazione della democrazia formale in democrazia sostanziale, ma non quale sostituzione di essa con strutture burocratico-autoritarie di dominio.

Il socialismo proposto da Marx non è pensabile come una semplice estensione delle procedure rappresentative, o all’opposto, come il risultato della soppressione di tali procedure per sostituirle con strutture statali accentrate, monolitiche e gerarchiche. Il tema centrale in Marx è l’idea dell’assegnazione del controllo della sfera politica all’intera società civile, al fine di favorire, con la socializzazione dei mezzi di produzione, una riappropriazione, da parte dell’intera società, del prodotto del lavoro sociale, superando così l’emarginazione politica ed economica delle classi e dei gruppi sociali penalizzati sul piano distributivo. Non è forse detto nel Manifesto che il capitale disponibile è un prodotto collettivo, che può essere valorizzato solo mediante un’attività comune di tutti i membri della società?

Tuttavia, se la socializzazione della proprietà privata dei mezzi di produzione e la sua trasformazione in proprietà collettiva (non pubblica) si ipotizza sia estesa solo a quei mezzi di produzione che sono “regalati dal cielo” (quali sono le risorse naturali), per la cui acquisizione non è stata erogata alcuna energia lavorativa, diviene realistico ipotizzare che con la socializzazione dei mezzi di produzione si realizzi, non un trasferimento del diritto di proprietà da una categoria di soggetti ad un’altra, ma solo la trasformazione del carattere del diritto di proprietà, da privato in sociale. In tal modo, la proprietà dei mezzi di produzione, perdendo il suo “carattere di classe”, può essere utilizzata, attraverso la sfera pubblica, da parte dell’intera collettività, per realizzare la tanto agognata giustizia sociale.

Se alla luce delle considerazioni sin qui svolte sul pensiero marxiano e sul travisamento dello stesso, effettuato da coloro che hanno inteso avvalersene per adattarlo alle condizioni storiche di particolari contesti sociali, con riferimento alle tesi dei quattro esperti apparse sul periodico “La Lettura”, è facile rilevare come in alcuni casi si tenda a giudicare il pensiero marxiano (per l’impatto che esso ha avuto sul dibattito politico svoltosi nel corso di gran parte del XX secolo sul problema della giustizia sociale e della democrazia) sulla base dell’esperienza sovietica, formulando “valutazioni” fondate, da un lato, sul “metro fallito” del socialismo reale sperimentato, e dall’altro, su una critica a priori (smentita dall’esperienza) formulata da un punto di vista neoliberista.

Così, ad esempio, mentre Stefano Petrucciani e Antonio Moscato, non negano l’attualità del pensiero marxiano, osservando, da un lato, che esso ha colto alcuni tratti essenziali della dinamica del capitalismo (Petruccioli), poi puntualmente confermati nella vicenda storica; dall’altro lato, che quel pensiero, nonostante la sua attualità, è da considerarsi (Moscato) “irreparabilmente in crisi”, unicamente per via dei “danni” che esso ha subito a causa della “sua utilizzazione forzata nell’Unione Sovietica staliniana”, nella forma dogmatica del “marxismo-leninismo”.

Del tutto diversa è la valutazione del pensiero marxiano fatta da Giovanni Codevilla e Dario Antiseri. Il primo imputa a Marx il fatto di aver proposto il perseguimento dell’obiettivo dell’organizzazione di “un ordinamento ideale che assicurasse a tutti una pari felicità, in altre parole di organizzare il paradiso in terra”; obiettivo che Lenin, interprete ed esecutore del pensiero marxiano, ha inteso perseguire attraverso un’azione rivoluzionaria idonea a guidare la classe operaia verso il socialismo. Dario Antiseri, invece, attribuisce a Marx, non solo proposte che egli non ha formulato in termini assoluti, ma anche il fatto che molti aspetti del suo pensiero contengano “nuclei scientifici” da cui sono state dedotte predizioni smentite dalla realtà; tale è, ad esempio, quella che afferma che la giustizia sociale possa essere realizzata solo attraverso l’abolizione del mercato, mentre, al contrario, la negazione della libera economia porterebbe con sé la negazione della libertà.

Al di là delle dispute ideologiche, non si può non riconoscere la validità di alcune affermazioni formulate da Marx, come quella con cui sostiene che l’ingiustizia sociale e gli ostacoli al funzionamento della democrazia siano riconducibili alla concentrazione della ricchezza provocata dal modo di funzionare del capitalismo, in presenza di un mercato senza regole. Alla luce dello stato in cui versano attualmente i sistemi sociali a capitalismo avanzato, si deve ammettere la validità della conclusione di Moscato: ovvero, che il riconoscimento dell’attualità del pensiero marxiano si scontra, in sostanza, con “la difficoltà imprevista”, espressa dal fatto che molti “detrattori” erano un tempo tra i suoi principali sostenitori, approdati poi “all’accettazione dell’ordine esistente come unico orizzonte invalicabile”. Non riconoscere la veridicità di questa conclusione è solo dovuto all’”autismo culturale”, proprio di chi ha interiorizzato acriticamente l’imperante ideologia neoliberista.

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