Poche idee rendono impossibile uscire dalla crisi

1 Settembre 2014
Lavoro Minorile e la Rivoluzione Industriale Inglese
Gianfranco Sabattini

Pubblichiamo un commento di Gianfranco Sabattini su un articolo di Giorgio Lunghini apparso recentemente sul Manifesto (Red).

Giorgio Lunghini, sul “Manifesto” dei giorni scorsi, nell’articolo “Salari e pensioni. Forti interessi, poche idee”, critica il “progetto governativo” volto a rilanciare la crescita del Paese, tagliando i salari e le pensioni “d’oro”; ciò al fine di liberalizzare il mercato del lavoro e attivare la relazione circolare virtuosa, che vuole che il presunto aumento della domanda di lavoro da parte delle imprese, causato dal processo di liberalizzazione indotto dal “taglio” delle pensioni, porti all’aumento dell’occupazione e con questa all’aumento del prodotto, obiettivo tanto agognato. Lunghini, giustamente, ricorda che il processo appena ricordato è sostenuto e giustificato sulla base di argomentazioni tecniche trite, per non dire vetuste; egli, però, si limita a sottolineare che esso potrebbe realmente svolgersi solo se non ci fossero “impedimenti giuridici o sindacali”: sul mercato del lavoro “si stabilirebbe un livello di equilibrio del salario, tale che non ci sarebbe disoccupazione volontaria”, in quanto rimarrebbero disoccupati solo quei lavoratori che pretendessero un salario eccedente la loro produttività. Tutto il ragionamento – afferma Lunghini – è apparso sinora tanto convincente da ispirare molte delle riforme strutturali, tentate o progettate, del mercato del lavoro; esso però ha il difetto di risultare privo di ogni conseguenza valida rispetto, non solo al rilancio della crescita del sistema economico, ma anche al conseguimento della tanto agognata flessibilità del mercato del lavoro. L’intero ragionamento è inficiato “ab imis” dal fatto che le idee che lo sorreggono sono poche e molto lacunose; inoltre, posto che la relazione circolare virtuosa sopra ricordata possa svolgersi senza impedimenti giuridici o sindacali, la capacità delle imprese di collocare sul mercato i beni prodotti dipende dal livello del prezzo, nel senso che la loro capacità di vendita dipenderà dal costo del lavoro e quest’ultimo dipenderà, a sua volta, “dal contenuto tecnologico delle merci prodotte”. Al riguardo, però, si sa che è proprio il ritardo tecnologico uno dei mali endemici che sono all’origine del declino economico del Paese e della stagnazione in cui versa attualmente la sua economia. A fronte di tale situazione, che validità può avere il progetto governativo di tentare il rilancio della crescita attraverso una riforma delle pensioni “d’oro”, ovvero attraverso una politica ridistributiva, fatta pesare, sia pure sulla base di criteri progressivi, sulle pensioni superiori a un dato limite e a favore dei percettori di redditi minimi ad esso inferiori? La risposta all’interrogativo può senz’altro fare proprie le osservazioni di Lunghini: in presenza dei vincoli imposti dall’Unione Europea, occorrerebbe realizzare in alternativa una revisione della composizione della spesa pubblica, avendo cura di accrescere il peso delle voci più idonee ad aumentare la domanda globale del sistema economico, salvaguardando l’offerta dei servizi sociali; e, al tempo stesso, di aumentare anche il peso delle spese che influenzano la domanda in minor misura, per contenere il disavanzo pubblico entro i parametri di Maastrich, ma facendo spazio successivamente alla riforma della pressione tributaria ed alla lotta contro l’evasione, delle quali molto si parla, ma nulla o poco si è fatto e si fa.

Ciò che del discorso complessivo di Lunghini non è del tutto condivisibile è innanzitutto la sua totale chiusura al “taglio delle pensioni”, con finalità ridistributive a sostegno delle domanda, sia perché il “taglio” avrebbe la natura di un’”imposta di scopo”, sia perché con esso si realizzerebbe una sorta di “solidarietà intergenerazionale”: sia la natura del “taglio”, che il presunto obiettivo solidaristico sarebbero, secondo Lunghini, privi di conseguenze utili rispetto alla fuoriuscita del Paese dal tunnel della crisi. Posto anche che il “taglio” abbia la natura di un’imposta di scopo, cioè di una misura fiscale introdotta per il raggiungimento di particolari obiettivi di volta in volta individuati, non ci sarebbe nulla di male accettarlo se esso realmente riuscisse a sostenere nell’immediato la domanda aggregata, per la durata necessaria a sostituirlo con azioni politiche di ben altro spessore, quali quelle volte a realizzare la riforma fiscale e la lotta all’evasione.
Il “taglio” garantirebbe una “boccata di ossigeno” ad una domanda globale la cui debolezza è allo stato attuale una vera “palla di piombo” al piede dello stato di crisi dell’economia nazionale; è perciò fuori luogo invocare impedimenti di varia natura, soprattutto formali, per sottolineare la sua presunta scarsa incisività rispetto all’obiettivo del sostegno della domanda globale. Ciò che, invece, del “taglio” costituisce la vera debolezza è la pretesa di perseguire con esso una “solidarietà intergenerazionale”.
A parte la considerazione delle difficoltà, sottolineate dallo stesso Lunghini, che devono essere superate nel “decidere se sia corretto o ragionevole chiamare la generazione vivente a restringere il suo consumo in modo da stabilire, nel corso del tempo, uno stato di benessere per le generazioni future”, si deve osservare che, con il “taglio” delle pensioni d’”oro” per scopi ridistributivi, più che realizzare una “solidarietà intergenerazionale”, si realizza in effetti una “solidarietà intragenerazionale”. Fatto, quest’ultimo, di per sé giustificabile, se quanti delle generazioni viventi hanno fruito di un reddito che ha consentito loro di acquisire una pensione tale da essere ora “chiamati in causa” per solidarizzare con quelli che hanno avuto meno fortuna per le più svariate ragioni; e se da una ridistribuzione sul tipo di quella che sta progettando il governo, sebbene giustificata sulla base di una “lamentosa mozione degli affetti”, può servire allo scopo, ben venga.
Tuttavia, non è in questo modo che può essere rilanciato il processo di crescita del Paese; ciò perché, anche se il “taglio” delle pensioni “d’oro” fosse sostituito nel tempo, come auspica Lunghini, da una revisione della spesa e delle entrate pubbliche, da una riforma del sistema tributario e da una lotta efficace all’evasione, non sarebbe possibile rilanciare la crescita in modo durevole e stabile, in quanto la logica del modo di produzione del capitalismo attuale è di tale natura da creare di continuo disoccupazione involontaria e irreversibile della forza lavoro, che nessuna politica pubblica fondata su ricorrenti correzioni della distribuzione del prodotto sociale sarebbe in grado di affrontare.
Le problematiche connesse al tema di una riforma strutturale del mercato del lavoro e della logica distributiva che lo sottende sono ben note a Lunghini. Egli è uno di quegli economisti che preferisce rimanere fedele all’idea che l’”autonomia economica e politica delle persone” debba sempre presupporre un reddito da lavoro e non un reddito di cittadinanza, o una sua qualche variante depotenziata, sotto forma di reddito minimo garantito; si sa anche che Lunghini sarebbe favorevole ad una riforma del mercato del lavoro fondata su una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, anche se è disposto a riconoscere che una riforma siffatta susciterebbe oggi “ovvie e probabilmente insuperabili resistenze da parte dei capitalisti”, nel senso che la redistribuzione del lavoro, intesa anche come forma di trascendimento del capitalismo, andrebbe incontro all’opposizione degli interessi costituiti che “non si vogliono o non si sanno contrastare”, così come presumibilmente non si vorranno o non si sapranno contrastare quelli che alla fine si opporranno ad una riforma al “volo di farfalla” qual è quella fondata sul “taglio” delle pensioni “d’oro”. Lunghini conclude il suo articolo, quasi a titolo di consolazione, citando un’epigrafe di John Maynard Keynes: “Il potere degli interessi costituiti è assai esagerato in confronto con la progressiva estensione delle idee”; per Lunghini, Keynes si sbagliava. No, Keynes aveva ragione, perché la mancata utilizzazione dell’estensione delle idee, oltre ad essere causata dall’opposizione degli interessi costituiti e anche causata dall’opposizione di chi è, a volte, eccessivamente affezionato alle proprie del tempo andato.

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