L’economia è un mezzo verso un fine e non un fine in sé

1 Dicembre 2016
Joseph Eugene Stiglitz (Gary, 9 febbraio 1943)

Joseph Eugene Stiglitz (Gary, 9 febbraio 1943)

Gianfranco Sabattini

Jioseph Stiglitz, economista premio Nobel e saggista di fama internazionale, nel piccolo saggio “Un’economia per l’uomo”, scritto in occasione di un suo intervento alla XVIII sessione dell’Accademia Pontificia per le Scienze Sociali, con all’ordine del giorno la discussione sul tema della “Pacem in Terris“, l’eciclica promulgata l’11 aprile del 1963 da Papa Givanni XXIII, tratta di “alcune importanti questioni etiche nel contesto del comportamento economico”; tali questioni sono sollevate, a parere di Stiglitz, dalla necessità “di creare armonia fra uomo e uomo fra natura e uomo”, considerando l’economia come un mezzo orientato a soddisfare le esigenze esistenziali dell’uomo e non un fine in sé; nel convincimento, cioè, che l’uomo non esista per “servire l’economia”, ma al contrario sia l’economia al servizio della crescita e dello sviluppo dell’uomo.

L’occasione della sua partecipazione alla XVIII sessione dell’Accademia Pontificia ha offerto il destro a Stiglitz per sottolineare come, nel corso del dibattito svoltosi durante la diffusione degli effetti della crisi scoppiata nel 2007/2008, non siano stati considerati con sufficiente attenzione due aspetti di natura etica, riguardanti, da un lato, la condotta moralmente deprecabile di molti operatori finanziari, in particolare dalle banche, e dall’altro lato, le rimunerazioni che molti operatori finanziari hanno ricevuto, nonostante la crisi; rimunerazioni non proporzionali al “contributo complessivo” reso al sistema sociale all’interno del quale essi operavano.

Riguardo alle banche, Stiglitz afferma che sono ormai molto ampie le prove del fatto che esse si sono approfittate dei gruppi sociali meno informati e meno accorti, al solo scopo di massimizzare i propri profitti; a rendere più severo il giudizio sul loro comportamento sta anche la circostanza che, quando sono loro “esplosi in mano gli ordigni che loro stesse avevano creato, il governo è intervenuto a salvarle, lasciando invece coloro che erano stati vittime in balia di se stessi”. In conseguenza di ciò, le banche, che avrebbero dovuto avere l’accortezza di gestire i rischi attraverso l’offerta di “prodotti finanziari adeguati”, in sottoscrizione ai risparmiatori, hanno invece “tradito la fiducia” loro accordata.

Per quanto concerne le superrimunerazioni dei manager delle istituzioni finanziarie, Stiglitz osserva che un sistema sociale all’interno del quale alcune categorie di soggetti ricevono una rimunerazione correlata, non tanto al “contributo effettivo apportato alla collettività”, quanto piuttosto alla capacità di catturare guadagni, attraverso la disinformazione che loro stessi concorrono a diffondere tra il pubblico, non è un sistema sociale “giusto”.

Ovviamente, a parere di Stiglitz, non è sufficiente fare riferimento alla sola morale pubblica, per assicurare condizioni di giustizia nei rapporti tra gli uomini, sebbene le politiche pubbliche debbano contribuire a sensibilizzare tutti i componenti del sistema sociale delle possibili conseguenze negative che possono derivare dalle scelte individuali. Alle regole morali deve essere associata l’introduzione di ”sistemi di regolamentazione”, imponendo l’obbligo, per chi con i propri comportamenti danneggia gli altri, a pagarne le conseguenze. L’obiettivo dei sistemi di regolamentazione dovrebbe essere quello di evitare, ad esempio, che le scelte individuali comportino l’”imposizione di esternalità negative”, cioè di effetti negativi causati dai danni ambientali, sugli altri. Sennonché, sussiste la prevalente tendenza, da parte di estese “aree imprenditoriali e finanziarie”, ad opporsi ai tentativi di armonizzare, attraverso le regolamentazioni, i comportamenti dei diversi componenti del sistema sociale; oppure, esiste la tendenza che le regolamentazioni siano ignorate persino nelle pratiche di governo, nonostante sia l’attività di governo ad introdurre le regole.

Ciò accade perché i governi sono sempre protesi a massimizzare il Prodotto Interno Lordo (PIL), piuttosto che il “benessere reale della società”; sennonché, notoriamente, il PIL non è un valido indicatore del benessere sociale: il PIL pro capite può aumentare, ma a seguito di tale aumento i componenti del sistema possono essere messi nella condizione di dover affrontare maggiori disagi, tali da comportare una spesa pro capite ben maggiore dell’aumento originario del PIL; inoltre, il prodotto lordo pro capite può aumentare, ma possono anche parallelamente aumentare le conseguenze negative delle maggiori disuguaglianze distributive; oppure può accadere che l’aumento del PIL induca le generazioni attuali a condurre uno standard di vita che varrà a sacrificare le stesse opportunità alle generazioni future.

La possibilità che i sistemi di regolamentazione non consentano di armonizzare i comportamenti dei diversi membri del sistema sociale è aumentata con  la crescita del livelli di integrazione a livello globale delle economie nazionali. Secondo Stiglitz, la globalizzazione di solito viene giustificata sostenendo che essa è valsa ad aumentare la produttività economica a vantaggio di tutti i Paesi, sia di quelli economicamente avanzati, che di quelli arretrati. In alcuni Paesi ciò è sicuramente avvenuto, in altri invece le conseguenze sono state negative, al punto che molti individui all’interno di questi ultimi sono venuti a trovarsi in condizioni ben peggiori di quanto non lo fossero alcuni decenni prima. Inoltre, chi sostiene la validità della globalizzazione afferma che essa potrebbe essere fonte di maggiori effetti positivi sul piano della produttività economica, se il mercato fosse meno condizionato dalle regolamentazioni.

Al riguardo – Stiglitz afferma – che nessuna ”idea ha avuto più influenza nella teoria economia della nozione della mano invisibile di Adam Smith, cioè dell’assunto che l’inseguimento del proprio interesse (profitto) porti, come se guidato da una mano invisibile, al benessere della società”. Ma l’assunto smithiano è stato oggetto di analisi di approfondimento negli ultimi cinquant’anni; tali analisi hanno evidenziato che “fintanto che l’informazione è imperfetta e asimmetrica, fin tanto che i mercati sono incompleti (per esempio, non esistono mercati assicurativi che coprano tutte le eventualità), fin tanto che i mercati non sono completamente competitivi, la ricerca del proprio interesse non porta all’efficienza economica”; poiché l’informazione è sempre imperfetta e asimmetrica e i mercati sono sempre incompleti e non sempre competitivi, la ricerca esclusiva della massima soddisfazione dell’interesse individuale non può mai portare all’efficienza economica e alla massimizzazione del benessere collettivo.

Se il perseguimento dell’interesse personale non può portare alla massimizzazione del benessere generale, occorre che i comportamenti dei singoli componenti il sistema sociale non prudano esiti indesiderati per altri. L’etica pubblica, pertanto, afferma Stiglitz, riveste un ruolo importante, anche se un “giusto” funzionamento del sistema sociale non può essere basato esclusivamente sulle scelte etiche dei singoli soggetti. E’, questo, il motivo per cui si impone la necessità che i governi agiscano per porre rimedio alle “falle dei mercati”; poiché anche i governi possono essere vittime di un’imperfetta informazione, ogni sistema sociale bene ordinato deve prevedere anche la possibilità di interventi straordinari per fare fronte ai limiti dell’azione regolatrice del proprio governo.

L’azione governativa è di solito imperniata su un mix di azioni, che in parte assume la forma di spesa governativa e, in parte, quella di regolamentazione governativa, soprattutto se l’obiettivo da perseguire consiste nell’assicurare al sistema sociale una distribuzione del prodotto sociale desiderabile, cioè una distribuzione reddituale equa e giusta; ovvero, una distribuzione volta a contenere e a rimuovere le disuguaglianze, o quantomeno a conservarle entro i limiti in cui, secondo la prospettiva di analisi rawlsiana, esse sono vantaggiose per le fasce sociali economicamente più deboli, oppure quando costituiscono la condizione necessaria ad assicurare un miglioramento economico per tutti.

Esiste, a parere di Stgltz, anche una ragione più generale a favore delle politiche pubbliche volte a contenere e a rimuovere le disuguaglianze distributive; queste sono all’origine di inefficienze che determinano molti “fallimenti di mercato”, cioè situazioni in cui le “ricompense dei singoli e i contributi al benessere della collettività non sono allineati; gli esempi più significativi sono quelli che originano dal ricorrere delle esternalità, che si verificano, come si è visto, in tutti i casi in cui il comportamenti dei singoli causa un danno ambientale che, pur traducendosi in un danno per altri, colui che ha provocato il danno non viene chiamato a sostenere il costo. La regolamentazione delle estenalità, perciò, costituisce un presupposto perché i mercati funzionino correttamente e consentano la realizzazione dell’”armonia tra uomo e uomo e fra uomo e natura”.

L’accettazione dell’ideologia del libero mercato, osserva Stiglitz, non deve assolvere dalla responsabilità che siano attuate le politiche pubbliche più appropriate per regolamentare le esternalità; ciò è reso necessario perché i mercati, fallendo, consentono la formazione di prezzi che non riflettono il costo che ciascun operatore, con le proprie decisioni, trasferisce sugli altri; ciò rileva soprattutto con riferimento all’ambiente, in quanto molte risorse naturali non hanno un prezzo o, se l’hanno, spesso manca d’essere adeguato. Solo se i componenti dei moderni sistemi economici riusciranno a liberarsi dal “credo” sul fondamentalismo del mercato – conclude Stiglitz – sarà possibile realizzare “una migliore armonia fra uomo e uomo e fra uomo e natura”. A tal fine, si impone certo la necessità di “una regolamentazione forte ed efficace, ma è ancora più importante inculcare una bussola morale più forte e delle etiche aziendali conseguenti”.

L’obiettivo dell’armonia nelle relazioni intersoggettive può diventare un obiettivo realmente conseguibile nelle società moderne, non solo nella difesa dei diritti civili e politici, ma anche di quelli economici, così come sancisce la Dichiarazione Universale dei diritti Umani, redatta dopo la seconda guerra mondiale; ciò potrà accadere soltanto se le società civili nei Paesi democratici riusciranno a svolgere un ruolo più efficace di quanto non sia stato sinora, nella difesa del benessere collettivo, inteso come bene pubblico. A tal fine, sarà necessaria una risposta collettiva; perché questa risulti efficace, occorre però che ogni soggetto sia portatore di una responsabilità morale a non sacrificare con le proprie scelte il livello di benessere degli altri e nel contempo sia anche portatore della responsabilità morale di aiutare gli altri a godere dello stesso livello di benessere del quale egli dispone all’interno dei sistema sociale cui appartiene.

Ovviamente, il ruolo delle società civili nella difesa del benessere sociale, inteso come bene pubblico, non può essere, come sembra suggerire Stiglitz, solo l’esito dei possibili sistemi di regolamentazione del mercato e degli obblighi morali dei quali potranno essere portatori i singoli componenti del sistema sociale; ai regolamenti delle istituzioni economiche e alle regole morali dei singoli individui occorrerà aggiungere anche “mutamenti” di molti aspetti dell’ordine economico dei sistemi sociali; aspetti che sono stati sinora responsabili dell’insufficiente ruolo attivo delle società civili nella difesa del benessere collettivo.

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