Leopardi e la luna di Gianni Mascia

1 Maggio 2016
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Maurizio Ciotola

Forse è il vento di questa Cagliari inquieta, ma sempre statica, che ha condotto il “maestro”, allora poeta in nuce, sulle vette andine di quel Perù febbricitante degli anni ottanta, ove ha atteso il vento del ritorno per esser riportato qua dove gli odori della nostra terra lo attendevano, in attesa di aprirsi alla sua poesia.

Di quel vento materno e dei tanti odori, che nella città di Cagliari deviano verso lezzi maleodoranti di pesce fatiscente o di acqua ristagnante, sentiva di dover parlare attraverso la nostra lingua, che anche di questo marciume sa narrare.

Lui, come l’acqua di cui è figlio, è riuscito a scivolare per le vie, po is rugas de custa cittadi, raccogliendo le voci e la forza di una città, su cui da ben più di duemila anni si sostiene.

Come acqua le raccoglie e come vento le trasforma, raccontandole, donando loro una melodia capace di  riportare il nostro cuore e la nostra mente a quel tempo in cui camminavamo leggeri su questa terra.

Leopardi e la luna, unito allinequivocabile sottotitolo, Cantus de prexu e de amargura, affronta una traduzione rischiosa, forse prima impensabile, certamente non blasfema, in barba a chi così ha voluto chiosarla.

Se vi può essere un infinito ancor più infinito, L’infinito di Giacomo Leopardi tradotto e necessariamente tradito in sardo da Gianni Mascia, <<S’estremadu>> è reso al lettore con una musicalità, che pare far naufragar in un più immenso infinito, <<istremenadu>>, ove quel <<mi lassai andai>> del poeta, rende ancor più liberatorio.

Gianni afferra la mano di Leopardi, lasciandosi condurre su quella luna che, il pastor errante mira e alla quale chiede: <<…ite faghes, luna amudada?>> e lega una intensa parte delle sue riflessioni alla vita di ogni uomo: <<Narami, o luna, a ita balit a su pastori sa vida sua, sa vida bostra a bois?>>

Sa vida continua, ma in A Silvia troviamo, raccogliamo, il dolore dei <<fizos tuos>> e alla fine in <<Custa sa sorte de sa zente umana?>> troviamo quella delusione e rassegnazione, che sembra esser partorita dalla nostra terra, come da Recanati o da qualsiasi altro angolo del mondo.

Gianni non lascia dubbi in merito alla sua radice culturale in parte ispanica e che sul popolo sardo si è posata, non solo per opprimerci, nei quattro secoli.

E’ permeata sì, acquisita certo, ma con un innesto forzato che ha sicuramente modificato la pianta natia, lasciando una ferita mai rimarginata da cui ancora fuoriesce, con sofferenza, della linfa.

Un gran dolore portato a mezz’aria grazie al vento, che non decolla e non diviene altro, se non dolore.  il poeta sardo coglie l’universalità e la esprime nelle sue varianti, legate alle lingue da cui il suo animo, unito al suo vissuto è attraversato, per essere restituito al lettore in una raccolta, secondo una variazione su una corda d’infinito.

Un lavoro encomiabile e spregiudicato attraverso cui siamo riusciti a cogliere, qualora ve ne fosse stato il bisogno, il pregio di questa nostra lingua, che più della terra di cui è figlia, sa affrontare grandi sfide e cogliere la vittoria.

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