L’idea di Europa unita tradita dal realismo degli Stati-nazione

16 Ottobre 2019

25 marzo 1957: firma del Trattato di Roma

[Gianfranco Sabattini]

L’idea di un’unione dei popoli europei, non imposta dall’alto, ma dal basso, per libera iniziativa dei popoli stessi ha una storia che sarebbe difficile percorrere sin dai suoi inizi; il secolo XIX, tuttavia, caratterizzato dal succedersi delle rivoluzioni nazionali vissute nel Vecchio Continente, è quello nel corso del quale, sia pure in termini prevalentemente idealistici, ha preso corpo, più concretamente, l’idea di una possibile convivenza di popoli diversi sotto le stesse leggi.

All’affermazione di questa idea ha contribuito chi, nella tradizione kantiana, ha insistito sullo stretto rapporto tra pace e libertà, che caratterizzava allora (come oggi) gli ideali patriottici delle singole nazionalità, interpretando l’unione dei Paesi europei nei termini di una libera unione dei popoli; ne ha offerto esempio il socialista utopista Claude Henry de Saint-Simon che, nel 1814, assieme al suo allievo Jacques-Nicolas-Augustin Thierry, in “De la Réorganisation de la société européenne” ha avanzato un’ipotesi di riordino delle relazioni tra i popoli dell’Europa dopo il loro “disordine” creato dalle mire egemoniche sull’Europa di Napoleone. Gli autori, partendo dalla considerazione delle singole realtà nazionali, proponevano un sistema politico continentale basato sulla creazione di un Parlamento dei popoli europei, ispirato al modello costituzionale britannico.

La comparsa sulla scena politica europea dell’idea di nazione, “brandita” nelle guerre d’indipendenza intraprese da molti popoli europei, ha indebolito le ipotesi teoriche formulate dall’europeismo ottocentesco. Si è trattato di una comparsa (quella dell’idea di nazione) contrastata sul piano ideale dal contributo italiano allo sviluppo dell’europeismo moderno, nato durante il movimento risorgimentale, nell’alveo del repubblicanesimo democratico professato da Giuseppe Ferrari, Carlo Cattaneo e Giuseppe Mazzini.

Non meno importante è stato il contributo dello storico inglese John Robert Seeley che, tenendo conto degli effetti della guerra franco-prussiana, ha indicato tra le ragioni che giustificavano la necessità dell’unificazione dei popoli europei, non solo i rischi dell’anarchia nello svolgimento delle relazioni internazionali, ma anche quelli connessi agli sviluppi della rivoluzione industriale, a suo parere governabili soltanto su scala continentale. Di qui, nell’auspicata unificazione dell’Europa, la sua proposta, di un modello istituzionale federale sul tipo di quello statunitense da conseguirsi, non attraverso un semplice accordo o intese diplomatiche tra i singoli governi, ma sulla base di un vasto movimento popolare.

Dissoltosi dopo il 1870 il sogno associazionistico del repubblicanesimo democratico, le istanze europeiste hanno cessato di registrare ulteriori progressi, rimanendo oggetto di riflessione di singoli studiosi che sono risultate prive di ogni interesse per establishment dominanti dei Pesi europei, prevalentemente impegnati (almeno i più importanti) a spartirsi le risorse del mondo attraverso politiche coloniali aggressive.

All’inizio del Novecento, l’europeismo è stato oscurato dalla trasformazione del “principio nazionale” (inteso come base della libertà dei popoli) in nazionalismo; quat’ultimo, concependo le nazioni come comunità tra loro profondamente in competizione, ha approfondito le divisioni politiche. Tuttavia, la sopravvivenza dell’idea di un’unione dei popoli europei è stata garantita dalle istanze internazionaliste proprie delle grandi ideologie del liberalismo e del socialismo, che hanno consentito alle non spente aspirazioni europeiste di liberarsi dei connotati idealistici prevalsi sino ad allora e di trasferirsi sul terreno della discussione e dell’iniziativa politica.

I tragici esiti del primo conflitto mondiale e la perdita dell’originaria preminenza globale dell’Europa hanno rappresentato una svolta decisiva; la guerra, causata dalla volontà di potenza dei Paesi economicamente più sviluppati dell’Europa, ha infatti favorito la mobilitazione dei popoli in pro delle spinte europeistiche, non solo per le distruzioni materiali e di vite umane causate dalla guerra, ma anche perché la situazione politica post-bellica era valsa a dimostrare l’impotenza dell’Europa a ristabilire con le proprie forze l’equilibrio politico delle relazioni fra i popoli in essa presenti.

Nel corso degli anni Venti è stato soprattutto grazie al ruolo svolto quale Ministro degli esteri francese Aristide Briand a rilanciare l’idea che l’Europa necessitasse di un sistema istituzionale sovranazionale se si voleva garantire realmente la pace tra i popoli; lo testimonia il celebre discorso che egli ha pronunciato nel 1929 all’Assemblea della Società delle Nazioni, in cui ha sostenuto che tale sistema non poteva che consistere in un’integrazione politica dei popoli europei su basi federalistiche e non confederalistiche.

L’avvento dei totalitarismi ha avuto l’effetto di oscurare di nuovo il dibattito sul come realizzare l’idea dell’unificazione del Vecchio Continente; ma è solo con il consolidarsi della “vicenda resistenziale” (così la chiama Stefano Quirico, ricercatore in Storia delle dottrine politiche presso l’Università degli studi del Piemonte “Amedeo Avogadro”, nel suo articolo “Europa: dall’integrazione comunitaria all’età dei sovranismi” (in Historia Magistra 28/2019), che prende forma il “precario laboratorio” in cui è stato possibile far rivivere e rinnovare “gli ideali [europeisti] sommersi dall’onda totalitaria”; all’interno quel laboratorio ha infatti preso forma concreta lo slancio propositivo di un’Europa unita.

Ciò è accaduto – sostiene Quirico – “anche grazie al coordinamento transnazionale dei movimenti impegnati nella lotta al nazi-fascismo”, che ha favorito la circolazione “di documenti chiaramente mirati all’unità europea”. Fra tutti i documenti svolgerà un ruolo centrale quello redatto nel 1941, durante il periodi del loro confino a Ventotene, da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi; il documento sarà pubblicato successivamente a cura di Eugenio Colorni e diffuso clandestinamente grazie ad alcune donne, tra le quali Ursula Hirschmann e Ada Rossi, moglie di Colorni la prima (successivamente divenuta moglie di Altiero Spinelli dopo l’uccisione di Colorni) e di Ernesto Rossi, la seconda.

Il “Manifesto”, originariamente intitolato “Per un’Europa libera e unita. Progetto di un manifesto”, denunciava il fatto che i principi posti alla base della costituzione della Società delle Nazioni (avvenuta dopo la firma del Trattato di pace di Versailles) non fossero stati accolti dalla generalità delle nazioni e che gli ordinamenti democratici fossero stati travolti dall’affermazione dei totalitarismi. Spinelli, Rossi e Colorni, prevedendo la caduta delle dittature, auspicavano che dopo le esperienze traumatiche delle due guerre mondiali che avevano devastato il mondo nella prima metà del Novecento, i popoli potessero sfuggire alle pretese delle élite conservatrici di ristabilire l’ordine pre-bellico, attraverso un disegno unitario sovranazionale europeo; ciò, non solo per scongiurare la conflittualità sino allora prevalsa fra le nazioni, ma anche e soprattutto per realizzare, su basi solidali, una maggiore equità distributiva delle risorse economiche e la costituzione di un governo dei popoli, uniti attraverso istituzioni democraticamente elette. L’ordinamento del disegno unitario sovranazionale europeo avrebbe dovuto basarsi su una “terza via” economico-politica, per consentire il superamento dei limiti del capitalismo e del comunismo, nonché la possibilità per i popoli di poter esprimere liberamente la loro autodeterminazione.

Non è possibile non rinvenire nelle finalità del “Manifesto” quanto, già nel corso dell’Ottocento, aveva anticipato Giuseppe Mazzini; egli infatti, dopo il duro colpo subito nel corso della rivoluzione nazionale italiana dalla “Giovine Italia” (costituita nel 1931 a Marsiglia) con il fallimento, nel 1934, del tentativo di invasione della Savoia, aveva reagito all’insuccesso trasferendo la lotta per l’unità dell’Italia sul piano europeo, costituendo, sempre nel 1934, a Berna la “Giovine Europa”, rappresentante il primo tentativo, organicamente concepito, di creare un’organizzazione democratica solidale a carattere sovranazionale.

Quali fossero le finalità di questa organizzazione si può desumere proiettando a livello europeo quanto Mazzini aveva direttamente indicato in “Istruzione generale per gli affratellati nella Giovine Italia”; egli infatti affermava esplicitamente che ciò che è vero per ogni individuo nei confronti di tutti gli altri che fanno parte della società alla quale egli appartiene, è vero ugualmente per ogni popolo nei confronti degli altri popoli. Cosi come tutti gli individui che vivono in una data società devono essere solidali tra loro, anche i popoli che decidono di “affratellarsi” devono darsi reciproco aiuto. Ogni atto d’egoismo esercitato a danno di un popolo è violazione della libertà, dell’uguaglianza e della fratellanza fra i popoli. La fratellanza di nazionalità diverse sarà resa operante solo quando i popoli che la compongono, nel pieno esercizio della propria sovranità, risulteranno associati in una federazione, per dirigersi verso la realizzazione delle finalità convenute nel patto comune.

Le sorti che hanno accompagnato il contributo mazziniano alla realizzazione di un’Europa unita sono quasi le stesse che saranno vissute successivamente dal contributo del Manifesto di Ventotene: quello di Mazzini sarà del tutto dimenticato alla fine del XIX secolo, a causa del prevalere delle finalità dei singoli Stati-nazione; anche il contributo di Spinelli, Rossi e Colorni, sebbene non dimenticato, sarà vittima della contraddizione che accompagnerà l’europeismo del Novecento. In proposito, osserva Quirico: “Tanto rigoroso è il Manifesto nell’analisi storica-teorica degli effetti perversi innescati dalla sovranità nazionale illimitata, nonché ambizioso nell’individuare la federazione europea come unico rimedio risolutivo, quanto sfortunate appaiono le campagne intraprese negli anni successivi per coagulare la maggioranza degli statisti, delle opinioni pubbliche e della masse popolari intorno alla causa euro-federalista”.

L’ipotesi di un federalismo europeo, nata nell’alveo della Resistenza, cosi come quello che i patrioti europei dell’Ottocento, nel corso della lotta di liberazione delle loro nazioni, avevano ipotizzato di realizzare, è stata depotenziata dal prevalere dei “retaggi statal-nazionali”, risultati refrattari ad avventurarsi lungo la strada di un’unione sopranazionale di impianto federale”. Gli statisti che si sono mostrati sensibili agli ideali del Manifesto di Ventotene, sono stati disposti ad impegnarsi per l’integrazione dell’Europa percorrendo una “terza via” che, trascendendo l’opposizione tra federalismo e confederalismo, consentisse di arrivare all’unità europea tramite un “approccio funzionalistico-comunitario”; nel pragmatismo di questo approccio non ha tardato ad insinuarsi “un pericoloso vulnus al principio democratico, determinato, in primo luogo, dalla costituzione di un edificio istituzionale dotato di una sovranità parziale, ma privo di legittimazione costituzionale”, e in secondo luogo, rafforzato “dalla tendenza della teoria funzionalista ad affidare rilevanti poteri decisionali ad autorità tecnocratiche”.

Le cose non miglioreranno con l’elezione, nel 1979, del primo Parlamento europeo e con l’aumento progressivo delle sue competenze negli anni successivi; né miglioreranno con l’Atto Unico Europeo, firmato nel 1986, per il completamento e il rafforzamento del mercato interno, atto col quale, oltre a fare fonte alle crisi internazionali dei mercati monetari e di quelli delle materie prime, si voleva rilanciare il processo di unificazione politica dell’Europa. Il rilancio non sarà avviato, neppure dopo la firma (nel 1992) del Trattato di Maastricht e l’adozione alla fine del secolo scorso della moneta unica europea. Tutto ciò che caratterizzerà il processo di integrazione politica dell’Europa dalla fine degli anni Settanta sarà solo ed unicamente un’attività finalizzata alla cura degli interessi economici, mediante procedure intergovernative che varranno sempre a subordinare ogni iniziativa volta a favorire l’integrazione politica del Vecchio Continente al rispetto degli interessi nazionali dei singoli Stati comunitari.

E’ accaduto così che le sorti dell’Europa unita siano divenute prerogativa di leader politici che, sbandierando una visione riformatrice “euro-entusiasta”, hanno finito col cedere il passo, come sempre è accaduto, alla difesa delle prerogative nazionali, a scapito, oltre che degli stati membri, anche dell’alto ideale degli Stati Uniti d’Europa.

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