L’importanza del Mezzogiorno nel rilancio dell’economia nazionale

1 Aprile 2017

Paul Klee – Giorno d’inverno, poco prima di mezzogiorno

Gianfranco Sabattini

In un articolo comparso nella Rivista economica del Mezzogiorno (3-4/2015), recante il titolo Quale ‘visione’ per la ripresa di una strategia nazionale di sviluppo? Adriano Guannola sottolineava l’urgenza e la necessità del “varo di un ‘Piano di primo intervento’ organico ad una strategia tesa a riportare il Mezzogiorno nel circuito dello sviluppo”.

Il riferimento al Mezzogiorno era suggerito a Giannola dal Rapporto Svimez per il 2015, dal quale risultavano dati preoccupanti che illustravano, non “una difficile congiuntura, bensì l’evolvere di un progressivo arretramento verso una condizione di stabile sottosviluppo”, sia pure evoluta rispetto a cinquant’anni fa, della condizione dell’area meridionale del Paese.

Il regresso dell’area, come da più parti viene evidenziato, è imputabile prioritariamente all’azione del governo centrale, al quale va addebitato il fatto che non sia riuscito ad adottare, già da prima che iniziasse la Grande Recessione, provvedimenti appropriati per arrestare il declino del Sud dell’Italia; nella consapevolezza che, per conseguire tale obiettivo, sarebbe stato necessario arginare il succedersi delle situazioni di emergenza che negli ultimi decenni hanno caratterizzato l’andamento dell’economia delle regioni meridionali.

L’azione necessaria non avrebbe dovuto essere orientata a “lubrificare” questo o quel comparto dell’economia del Mezzogiorno, bensì a cambiare alcuni dei suoi aspetti strutturali; in particolare, quelli riguardanti il mercato del lavoro e la pubblica amministrazione, soprattutto attraverso “la semplificazione e lo snellimento della burocrazia”, considerato che le regole istituzionali vigenti sono proprie di un sistema non più reattivo che potrebbe “faticare”, in assenza di appropriate riforme a costo zero, a rendere semplice l’accesso alle sue prestazioni. L’urgenza di simili provvedimenti, sottolinea Giannola, risalta anche in considerazione del fatto che l’accresciuta debolezza del Sud, dopo gli ultimi anni di “crisi profonda, se non contrastata, rischia di condizionare pesantemente la dinamica del sistema in tutte le sue componenti”.

A tale scopo, sarebbe stato necessario, non un documento contabile nel quale fossero elencati gli interventi e le risorse per la loro realizzazione, ma “piuttosto un documento programmatico”, che parlasse del Mezzogiorno inquadrato nel più generale problema dell’Italia; in altre parole, sarebbe stato necessario che il governo nazionale avesse chiarito la sua “visione” circa i problemi da risolvere e le opzioni da seguire “per affrontarli con successo”. La “visione” non avrebbe potuto non includere le esigenze prioritarie utili al “rilancio dell’accumulazione” e al blocco del “crescente disagio sociale”.

Negli anni della Grande Recessione – afferma Giannola – nell’settore industriale del Sud si è “perso il 7% dello stock di capitale lordo, il 30% della capacità produttiva manifatturiera: la seconda guerra mondiale aveva forse avuto esiti simili. Certo, a differenza di allora, oggi i ponti sono in piedi, la strade sono percorribili; per questo molti non si accorgono che è passata una guerra; per loro il contesto è ancora quello di un Paese sano, sviluppato e felice. Ma sono le dinamiche di questo Paese sano, sviluppato e felice che sollevano molti dubbi e preoccupazioni”, ponendo l’interrogativo su quale sia la “visione” di chi deve decidere in che modo intende stabilire come condurre il Paese alla ‘ripresa’.

Al riguardo, sarà inevitabile, per chi si pone dal punto di vista del futuro dell’economia del Mezzogiorno, interrogarsi circa le scelte che il governo intenderà adottare per rilanciare il processo di accumulazione nelle regioni del Sud. Alcune scelte dovrebbero essere orientate a modificare i processi distributivi; obiettivo, questo, conseguibile, da un lato, attraverso un governo più razionale del “processo di formazione del capitale umano”; dall’altro lato, attraverso la costituzione del previsto, e mai attuato, “Fondo di perequazione infrastrutturale”.

Alcune scelte dovrebbero avere ad oggetto il rilancio delle Università meridionali, che da anni – a parere di Giannola – stanno subendo gli effetti negativi di un progressivo razionamento delle risorse, che si traduce in una “sistematica devastante pratica” di redistribuzione inversa a danno dell’istruzione terziaria delle regioni meridionali. Infatti, il minor flusso di risorse alimenta l’”emigrazione” degli studenti che possono permetterselo verso le Università delle regioni del Centro-Nord del Paese, concorrendo per questa via ad assicurare a queste ultime ulteriori vantaggi, in presenza di un’assegnazione dei mezzi stanziati per l’istruzione terziaria sulla base di presunti, ma fuorvianti, “parametri oggettivi”. Anziché essere rimosso, il processo in atto ha sinora concorso a causare la progressiva dequalificazione dell’istruzione universitaria nelle regioni del Sud dell’Italia.

Altre scelte da adottare, per supportare il processo di accumulazione delle regioni meridionali, dovrebbero riguardare lo squilibrio infrastrutturale esistente tra queste ultime e quelle del Centro-Nord del Paese; squilibrio che avrebbe dovuto essere affrontato nel 2001, nell’ambito della riforma del Titolo V della Costituzione, per la realizzazione del federalismo fiscale. Il fallimento delle riforma, causato dal fatto che la sua attuazione è stata realizzata in funzione di motivazioni connesse a ragioni di equilibrio tra le forze politiche, piuttosto che all’esigenza di razionali interventi pubblici per il sostegno della crescita del Paese, ha portato con sé anche la mancata attuazione di disposti normativi destinati ad avere un impatto positivo sull’economia del Mezzogiorno, quale quello che prevedeva la costituzione del “Fondo per la perequazione infrastrutturale”.

Riguardo alla strategia da perseguire per promuovere il rilancio dell’accumulazione e bloccare il crescente disagio sociale delle regioni meridionali, Giannola osserva che l’Italia è l’unico grande Paese fondatore dell’Unione Europea “integralmente ed esclusivamente mediterraneo”; ciò rende del tutto inspiegabile perché non si approfitti del fatto che la globalizzazione, pur spingendo l’Italia ai margini dell’economia-mondo, ridimensionando, senza rottamarla, l’ottimistica visione del nostro usurato modello di specializzazione, offra comunque delle opportunità; una è quella di poter trarre vantaggio dall’orientamento recente, ma ormai consolidato, di Cina, India, ed altri Paesi dell’Estremo oriente che guardano “al mercato più ricco del mondo, l’Europa, facendo del Mediterraneo un luogo di vitale importanza”. Il nostro Paese, invece, a parere di Giannola, anziché approfittare delle chance che gli si offrono vive il paradosso delle imprese cinesi che abbandonano i porti delle regioni meridionali, andando a localizzarsi in altri porti mediterranei, per la nostra incapacità di fare fronte agli impegni assunti.

Inoltre, Giannola sottolinea come la considerazione dell’area del Mediterraneo non sia utilizzata per realizzare quanto da anni è oggetto di continui dibattiti, ovvero il non aver mai portato a compimento la realizzazione delle possibili interconnessioni che “ruotano attorno al perno della logistica a valore, presupposto indispensabile per aprire ad una fase di re-industrializzazione e ad una parimenti necessaria linea di politica industriale e territoriale”. Ciò consentirebbe, in alternativa alla centralità del modello distrettuale del passato, oggi in parziale crisi, di interpretare al meglio, soprattutto con riferimento al nostro Mezzogiorno, l’importanza delle “catene globali del valore”, ovvero del ruolo che potrebbe svolgere il potenziamento ed una più razionale organizzazione della “tradizionale filiera produttiva”; ciò, tra l’altro, consentirebbe di invertire la tendenza al regresso cui è esposta l’intera area meridionale.

Il problema dell’energia dovrebbe essere considerato congiuntamente alle possibili interconnessioni produttive; logistica ed energia – a parere di Giannola – “sono parte integrante delle strategie interconnesse”, che consentirebbero, a loro volta, “un governo sostenibile del territorio”. In quest’ottica, il riordino urbano e quello delle zone interne costituirebbero il “terzo pilastro” della strategia delle interconnessioni; una precondizione, questa, che consentirebbe, tra l’altro, di affrontare con realismo la soluzione dei problemi della “valorizzazione del patrimonio culturale ed ambientale” e della promozione del “sistema agroalimentare ‘mediterraneo’”.

Sottolineando le urgenze precedentemente indicate, Giannola si attendeva che il “Masterplan” adottato per il Mezzogiorno individuasse nei previsti “Patti territoriali” contenuti conformi alle urgenze indicate. Invece, il 10 agosto dello scorso anno, con delibera del Comitato Interministeriale per la Programmazione (CIPE), il Governo, dopo aver stabilito preliminarmente le aree di intervento ed approvato il riparto generale delle risorse del “Fondo per lo sviluppo e la coesione territoriale” (FSC), a valere sul medesimo fondo ha disposto l’assegnazione delle risorse per finanziare gli interventi deliberati per il Mezzogiorno.

Sulla base delle decisioni assunte, è apparso subito chiaro che gli interventi, più che essere orientati a promuovere e a supportare il rilancio economico delle regioni meridionali, in una prospettiva di crescita e sviluppo dell’intera economia nazionale, sono risultati niente più che elenchi di interventi da tempo previsti, finanziati con risorse in gran parte già precedentemente stanziate, senza un coordinamento d’insieme e fuori da ogni prospettiva di riequilibrio territoriale.

Conseguentemente, come tradizionalmente è sempre accaduto, allorché sono stati decisi gli interventi per promuovere la crescita e lo sviluppo dell’area meridionale, nel varare il tanto atteso “Masterplan” per il Mezzogiorno, si è proceduto senza abbandonare il vecchio sistema dell’eccessiva frammentazione delle decisioni di intervento. Per giunta, i finanziamenti concessi, oltre a risultare in gran parte già precedentemente stanziati, mancavano del tutto del carattere dell’addizionalità; in altre parole, lo Stato, da un lato, ha sostanzialmente ridotto la spesa ordinaria in favore delle regioni del Sud, e dall’altro, ha utilizzato i fondi strutturali per coprire gli effetti del drastico contenimento della spesa ordinaria.

Ciò che deve essere ancora messo in evidenza è il fatto che Renzi ha avuto interesse ad avviare il “Masterplan per il Sud” nel 2016, solo per motivi connessi al referendum sulla sua proposta di modifica della Costiruzione, la cui bocciatura ha condotto alla fine del suo governo; al di là della contingenza elettorale, poi non deve essere dimenticato ciò che da tempo è un fatto acquisto, ma che stenta ad essere riconosciuto nella pratica delle decisioni concernenti gli interventi in pro delle regioni meridionali; ovvero che, sin tanto che le politiche per il Mezzogiorno non saranno progettate ed attuate senza la considerazione delle specifiche urgenze implicite nella promozione dello sviluppo locale, con il superamento della tradizionale concezione meramente quantitativa delle politiche di sviluppo, qualsiasi intervento è destinato a sicuro fallimento, come sinora è accaduto.

Senza una visione radicalmente innovativa del problema del Mezzogiorno, che valga a connotarlo in termini di reale problema nazionale, tutti i progetti d’intervento saranno solo suggeriti da valutazioni estranee alla reale integrazione dell’economia meridionale nella struttura economico-sociale, non solo nazionale, ma anche europea e, più in generale, globale.

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