L’impossibile ritorno alla normalità dopo la crisi pandemica

16 Maggio 2020

(Un murale a Berlino)

[Gianfranco Sabattini]

E’ diffuso il convincimento che, dopo gli effetti sconvolgenti provocati dal Covid-19, sia impossibile per l’Italia (ma non solo) tornare ad una normalità simile a quella del passato, prevedendo che gli sconvolgimenti provocati dal virus negli assetti produttivi e civili debbano necessariamente subire radicali cambiamenti.

Le preoccupazioni della parte più importante del mondo della produzione non sembrano, tuttavia, riflettere questa ineludibile necessità. Non si comporta in maniera diversa la maggior parte degli analisti economici che, anziché prefigurare gli opportuni da apportare agli assetti produttivi del Paese, sembrano unicamente protesi a stimare il tempo che sarà necessario perché, dopo la pandemia, si possa ricostituire la ricchezza “perduta”.

Questa preoccupazione, secondo Giuseppe Berta (“Stato, ma non solo, ripartiamo da ciò che siamo”, in Limes n. 3/2020), “ha un risvolto persino inquietante, se si ricorda che l’Italia non si è più riavuta, nella sostanza, dalla recessione del 2008-9, visto che non ha ricuperato la capacità economica che andò persa durante quella congiuntura”. Dopo quella crisi, infatti, il Paese non è tornato ad una normalità simile quella del passato, perché, dopo la Grande Recessione provocata dal crollo dai mercati immobiliari degli Stati Uniti, ha scontato l’obsolescenza del proprio sistema economico, maturata nel corso degli anni precedenti. Di conseguenza – continua Berta – “non ha senso calcolare il tempo teorico necessario al ricupero di una condizione di normalità che non esisteva già prima dell’ultima crisi”. In altri termini, non ha senso “indugiare in un ragionamento ipotetico privo di una base reale di riferimento”; meritano invece di essere analizzati gli effetti abbattutisi sulla struttura debilitata dell’economia nazionale, in funzione della progettazione di un nuovo futuro.

L’intento del governo di soccorrere tutti (famiglie ed imprese), in modo che nessuno abbia a patire gli effetti negativi dell’interruzione forzata dell’attività produttiva, e soprattutto non debbano subire gli effetti di una distruzione di posti di lavoro, non può non risultare gravato dal rischio di risultare inadeguato, se si considera che tale intento viene assunto dopo mesi di interruzione di tutte le attività produttive.

E’ infatti da ritenersi del tutto improbabile che, dopo la fase acuta dell’emergenza, la domanda finale del sistema possa tornare ai livelli precedenti lo scoppio della pandemia; perciò è da prevedersi che il crollo della produzione e delle attività commerciali non potrà essere compensato da un improbabile aumento della domanda, tenuta “a freno” anche dal pessimismo che pervade le famiglie, per via del futuro incerto che non può che limitare la loro propensione a consumare. In queste condizioni, perciò, un ritorno alla vita di prima – a parere di Berta – non è “neppure auspicabile”, se si vorrà, considerate le condizioni del post-pandemia, puntare “all’edificazione di un edificio dotato insieme di resistenza e di qualità, capace di durare nel tempo”.

Con l’epidemia, oltre che per le famiglie, il clima è completamente mutato anche per le imprese. Per il loro rilancio occorrerà indirizzare verso il mondo produttivo crescenti volumi di credito; ma la loro tenuta, soprattutto per quelle integrate nell’economia internazionale, dipenderà dall’andamento del mercato mondiale e dalla riorganizzazione delle filiere produttive delle quali esse sono parte. Perché possano avere una qualche probabilità di successo nel rilanciare l’economia, gli impegni e le promesse governative devono tradursi in una politica di intervento che riscopra i caratteri portanti dell’economia mista, quelli che hanno sostenuto in passato la crescita economica e civile del Paese. Deve quindi trattarsi di una politica economica che compensi il baratro apertosi alla fine del secolo scorso, quando – sottolinea Berta – il Paese ha valutato di poter ovviare “all’appannamento del proprio modello economico consegnandosi a un’integrazione europea che poi non si è verificata”, e dismettendo gli assi portanti che avevano sorretto la sua crescita per quasi un secolo.

Allora, l’establishment dominante ha rinvenuto frettolosamente nell’adesione al trattato di Maastricht il rimedio ai problemi che l’Italia non era riuscita a risolvere da sé; una decisone che ha comportato la liquidazione “in blocco dell’architettura istituzionale dell’economia, fin quasi alla cancellazione di ogni specificità italiana”, col risultato di aver concorso a creare una situazione caratterizzata da “una stagnazione prolungata, che ha finito col porre l’Italia in coda alle classifiche europee”.

Di fronte a tale stato di cose, aggravato ora dagli esiti della pandemia, prevale la tendenza a invocare l’intervento pubblico; ma, nelle condizioni attuali, quest’ultimo costituisce un ulteriore problema, piuttosto che la soluzione di quelli ora sul tappeto, ereditati dai decenni passati e tali da rendere difficile la ricostituzione di una struttura mista dell’economia italiana, volontariamente dismessa con l’adesione alle lusinghe prospettate dall’ideologia neoliberista.

Al ricupero del ruolo dello Stato nel rilancio dell’economia nazionale, dopo la pandemia, non resterà che l’intervento infrastrutturale in due aree tradizionalmente trascurate negli ultimi decenni, quali quelle della sanità e della scuola; tali aree dovranno essere potenziate, non solo per l’immediato periodo post-pandemico, ma anche per il futuro, assumendole come poli di attrazione degli investimenti, che potranno, a loro volta, fungere da volano per la promozione di nuove iniziative economiche.

L’area della sanità, in particolare, dovrà tener conto della trasformazione subita dalla “piramide demografica” del Paese, per via del fatto che gli italiani hanno conseguito una speranza di vita sempre più lunga, con un impatto crescente sul sistema previdenziale ed assistenziale e soprattutto su quello sanitario. Al contrario di quanto sinora è accaduto, non potrà essere trascurato che in Italia il peso della popolazione con oltre settant’anni di età è triplicato tra il 1950 e il 2020, passando dal 5 al 15% del totale. Ciò è accaduto perché nella prima parte del periodo considerato l’invecchiamento era causato dal declino della natalità; mentre, nell’ultima parte (e fino ai nostri giorni), invece, esso è da ricondursi al miglioramento della sopravvivenza, che ha consentito ad una proporzione crescente della popolazione di vivere più a lungo.

In queste condizioni, lo sforzo da compiersi dovrà essere connesso alla struttura per età della popolazione, sia in tempi normali, che in tempi di crisi, tenendo conto del fatto che (finché a livello globale non si deciderà di bloccare la distruzione dell’ambiente e di ridimensionare gli attuali livelli delle attività produttive, considerati sia la distruzione dell’ambiente che gli alti livelli di attività produttiva tra le cause prime delle epidemie) lo stato di salute della popolazione sarà esposto a rischi sempre più frequenti; in conseguenza di ciò, la struttura dei sistemi sanitari nazionali dovrà essere articolata nel territorio più di quanto non lo sia mai stata sino ad oggi e maggiormente orientata verso la popolazione anziana, quella maggiormente esposta ai rischi epidemici.

Anche l’area dell’istruzione dovrà essere oggetto di una politica pubblica volta a costituire un sistema scolastico finalizzato alla massima valorizzazione delle capacità lavorative individuali; ciò in considerazione del fatto che le moderne economie industriali andranno incontro a crescenti difficoltà nella creazione di nuovi posti di lavoro. Al potenziamento dell’istruzione dovrà accompagnarsi la riorganizzazione del sistema sociale che, eliminando le disuguaglianze, la disoccupazione, la povertà e le minacce alla salute della collettività, crei sempre più spazio ad attività d’investimento pubblico; ciò llo scopo di massimizzare il prodotto sociale, anche attraverso l’erogazione di un reddito di cittadinanza incondizionato, finalizzato a promuovere attività produttive autodirette, come fonte di reddito alternativo al lavoro eterodiretto (o dipendente), del quale il processo di accumulazione capitalistica contemporanea tende ad avere sempre meno bisogno.

Il ritorno a una presunta normalità, dopo la fase acuta della pandemia scatenata dal Covid-19. sarà resa ancora più improbabile. se si considera che i suoi effetti, nel caso dell’Italia, renderanno ancora più acuti i divari territoriali preesistenti. Ciò appare evidente, se si considerano – come afferma Fabrizio Maronta (“Così il virus ridisegna l’Italia”, Limes n. 3/2020) – “i cronici ritardi del Mezzogiorno”, che rendono questa vasta area “il ventre molle di un Paese nel complesso infragilito dallo tsunami pandemico”.

L’aggravarsi degli squilibri territoriali è un aspetto particolarmente preoccupante della crisi in atto, destinato a rendere impossibile la rimozione della insufficiente capacità del sistema sanitario nazionale di garantire, sul piano della salute, un uguale stato di sicurezza alla società civile italiana nelle sue diverse articolazioni territoriali. Cosa sarebbe successo, se la pandemia avesse colpito la regioni meridionali con la stessa intensità con cui ha investito alcune delle regioni settentrionali del Paese, più sviluppate economicamente e più dotate di infrastrutture sanitarie? La risposta non ha bisogno d’essere chiaramente esplicitata; considerati i persistenti squilibri territoriali, essa è facilmente intuibile.

Tra l’altro, la qualità delle prestazioni mediche nelle regioni del Sud del Paese risulta estremamente variabile, soprattutto a causa della competenza prevalentemente regionale in materia sanitaria. E’ questo uno dei problemi che, nella progettazione del possibile futuro post-pandemico, dovrà essere affrontato, risolvendo in modo definitivo e su basi innovative l’annosa questione della crescente autonomia decisionale pretesa dalle regioni, la cui mancata soluzione in termini univoci ha prodotto gli effetti indesiderati che l’opinione pubblica nazionale ha avuto modo di valutare durante lo svolgersi delle fasi più critiche dell’attuale pandemia.

La politica futura dell’Italia, orientata a potenziare le aree della sanità e della scuola, porrà il problema del suo finanziamento, risolvibile solo facendo affidamento sulla solidarietà europea; condizione problematica, in considerazione del fatto che il coronavirus ha riproposto in seno all’Unione Europea la “spaccatura” tra Paesi virtuosi nella gestione dei conti pubblici e Paesi che invece non lo sono stati nei decenni precedenti. Al centro della spaccatura è, come al solito, la Germania, che si ripropone, ancora una volta, non del tutto disponibile ad accollarsi i destini degli Stati economicamente più deboli dell’Unione: i tedeschi, infatti, assieme a olandesi, belgi, danesi e austriaci, non sono disposti ad accollarsi l’onere della collettivizzazione del debito che si genererà per rilanciare l’economia europea dopo il superamento della pandemia.

Tuttavia, pur in presenza di molte contraddizioni, occorre riconoscere che la Germania sta partecipando in modo determinante, grazie alla sua solida posizione economica, alla stabilizzazione delle economie dei Paesi membri dell’Unione più colpiti dal virus. Se la locomotiva economica dell’Europa venisse meno a questo impegno, le prospettive dei Paesi maggiormente indebitati, come l’Italia, sarebbero sicuramente molto più incerte, per via degli scompensi che le loro strutture produttive hanno accumulato nei decenni trascorsi.

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