L’inizio del lavoro

16 Marzo 2011

Marcello Madau

Il lavoro è davvero finito? Il lavoro è sempre esistito? Con quali significati e ruoli?
Il lavoro di massa è in crisi. Acquista ruolo e consapevolezza di sé l’importanza del lavoro cognitivo. E mi domando se non è per questo e il suo enorme potenziale di liberazione se unito ai ‘beni comuni’ che il potere tenda ad indebolirlo e controllarlo. D’altro canto un politico attento come Lenin ebbe a sottolineare come l’operaio dovesse sapere, per avere qualche speranza di vittoria ed emancipazione, una parola in più del padrone.
La CGIL ha coniato il felice termine di ‘Lavoratori della conoscenza’, che ingloba sostanzialmente il settore della scuola, ma che dovrebbe aprirsi in maniera decisa a più ampie rappresentanze della conoscenza stessa, in grado di costituirne un quadro più completo.
Voglio allora proporre qualche riflessione, di getto, non troppo ‘governata’. Senza pretesa di esaurire un tema ma di produrre alcuni spunti, rilanciare interrogativi.

Può essere utile – e non certo per un’operazione di pura, per quanto interessante, ricognizione storica – tratteggiarne a grandi linee le manifestazioni ed i suoi aspetti nelle pieghe dell’antichità, mia passione e talvolta (soprattutto quando ne capiamo la lezione) maestra di vita. Vedremo grandi cambiamenti e singolari, per quanto remotissime, vicinanze.
Il ruolo della conoscenza, dei saperi, come si è sviluppato e come ha giocato all’interno della complessa categoria del ‘lavoro’?
Intanto il lavoro inteso come trasformazione dell’ambiente da parte dell’uomo al fine di controllarne il più possibile le risorse alimentari e le incognite, creare utilità e soddisfare bisogni, è fortemente intrecciato con la nascita della cultura. Perché affermo questo? Per il suo stretto legame col fare e il trasformare da quando si scese dagli alberi.
Dei numerosissimi inquadramenti (e definizioni) della cultura, tre mi appaiono assai utili.
Il primo, in negativo: cultura è ciò che non è natura, ovvero tutto ciò che è prodotto di trasformazione deliberata. Una trasformazione che in sé precede l’epoca della coltivazione, inaugurata dall’avvento della civiltà neolitica, quindi retroterra arcaico del legame che conosciamo nel latino fra cultura e colere, coltivare. Il gruppo paleolitico compie, ad esempio, una trasformazione dell’ambiente nel lavoro per costruire ripari con le carcasse dei mammuth. Oppure: la prolungata sosta nei luoghi di pascolo dei grandi animali fa nascere tecniche produttive basate sul segno: i cicli dipinti, a metà fra la magia simpatica e il poligono di tiro simulato, sottendono il nascere di lavoro specializzato, ormai sulla via di essere mantenuto dal surplus produttivo.
Infine la capacità segnica che leggiamo nella produzione (materiale e immateriale): un prodotto conduce al suo produttore e ne indica perciò la cultura. Succede coi monumenti e i manufatti, ci guida nelle attribuzioni.

Ecco, i segni che ci giungono mostrano che la conoscenza è motore di innovazione e mutamento storico. Chi la possiede – direttamente o organizzandone le forze produttive correlate – è signore del mondo: la scoperta del fuoco. Quella dell’agricoltura (il coltivare). La nascita dei metalli. La tecnologia del ferro che si sostituisce nel secondo millennio al bronzo ‘palatino’. Le officine e le fabbriche dei contenitori ceramici.

Non c’è dubbio che con la divisione sociale del lavoro questo venga generalmente identificato con la fatica – anche qua soccorre l’etimologia latina, in questo caso il termine labor – e che molte notizie dall’antichità ne indicano tale aspetto sostanzialmente sgradevole.
Non sempre è stato così, ma comincia a nascere dal fatto che in una società qualcuno controlla progressivamente la produzione – a partire dalla gestione, e non dalla distruzione, del surplus produttivo – e la organizza facendo lavorare altri per i suoi scopi, detenendo in maniera crescente sia le tecniche sia le risorse, almeno quelle fondamentali, sia le persone destinate a produrre.

Una fatica diventa veramente tale quando il dispendio fisico supera quello del tempo libero (le tribù analizzate da Marvin Harris in ‘Cannibali e re’ dedicavano poche ore al giorno al soddisfacimento dei bisogni primari, molte di più al gioco e al riposo), quando sono altri che ti fanno faticare per produzioni che non sono tue, nelle quali non ti riconosci, non destinate a soddisfare i tuoi bisogni diretti.

E’ un processo assai articolato, non lineare, che si legge in combinazioni diverse nei vari modi di produzione, ma per il quale diventerà sempre più importante l’ampia disponibilità di mano d’opera, gestita secondo la forma schiavile o secondo il consenso comunitario attorno ad una superiore entità (la c.d. ‘forma asiatica’), che si concretizza nel modo di produzione palatino e in quello templare.
Per dominare e governare grandi sommovimenti (dall’impero di Alessandro a quello romano) servono grandi masse, da destinare ai lavori materiali e alle battaglie. La conoscenza viene messa a a disposizione di tali imprese, è strettamente controllata. Quando vi è un potere illuminato, o particolarmente attento, è usata in maniera esemplare: nei giardini del giovane Alessandro passeggiavano Aristotele e Lisippo. Le sale dei feroci re assiri sono capovalori di racconto figurato ed espressione artistica, dalla fortissima connotazione ideologica.

Da documenti scrittori, i più antichi non a caso, di pertinenza palatina, gli scribi dell’Antico Egitto ci dicono che il lavoro migliore è quello dello scriba, perché controlla il lavoro che altri fanno.
Gli scribi governano, scrivendoli, i saperi: dipendono dal palazzo, posseggono la scrittura. Un vero strumento di potere. Ma nei rivolgimenti del Primo periodo intermedio, vi fu anche l’assalto al potere egemonico della scrittura.

Assai antica, nei suoi filoni formativi, la storia della Genesi e di Adamo ed Eva, che hanno rubato (come Geordie…) nel giardino del re, vengono espulsi dal paradiso e destinati a guadagnarsi la vita con il lavoro. Una duplice maledizione, un duplice blocco, una punizione esemplare: l’accesso al sapere ( l’albero della conoscenza del bene e del male) è riservato, come quello ai beni materiali (il melo in sé). Furto di copyright e di frutta.

Esistono anche visioni positive del lavoro, ma dovremo osservarle con molta attenzione, almeno per quanto riguarda il lavoro di fatica: vi sono lavoratori dipinti nelle tombe dei dignitari egizi (in genere quelli che sovrintendevano alla produzione) che esibiscono la gioia nel lavorare, la mancanza di stanchezza, l’emulazione. Una manifestazione assai precoce di fenomeni che ben conosciamo, con immaginari prodotti dal potere (che manifesta la sua sfera socialmente desiderante): dallo stakanovismo al contratto truffa dei metalmeccanici passando per l’arte di regime -in particolare nei lavori campestri). Quando le fonti informative sono il padrone o uno stato assolutista, il lavoro dipendente e alienato conclude il tuo orizzonte, e l’occhio del padrone è dentro di te. Chissà se ti ingrassa.
Mario Liverani ha tratteggiato in maniera esemplare le due categorie di ‘sudditi’ nei regni vicino-orientali più antichi: i ‘liberi’ e i ‘dipendenti di palazzo’. I ‘liberi’ vivono al di fuori delle mura, in comunità più o meno grandi e generalmente strutturate sul villaggio e sulla cellula dell’unità produttiva domestica: essi hanno il possesso dei mezzi di produzione, ma non delle produzioni decisive bensì’ quelle legate alla capacità di sussistenza. Non sono comandati dal palazzo, ma il dominio dello stesso su di loro si esplica duramente nel prelievo fiscale nella coazione militare verso i lavori di ‘pubblica utilità’: la corvée per costruire opere pubbliche: che esse siano ponti, acquedotti o i trasporti di grandi blocchi di pietra per la costruzione di statue colossali. La sfinge, la piramide, la ziqqurat. E’ un lavoro pagato a razioni,delle quali ci resta traccia. Che talora, per quanto in maniera episodica, genera le prime rivolte per la mancata corresponsione del ‘salario’: nell’Egitto di Ramessese III, nell’esercito mercenario di Cartagine, nella Roma di Spartacus.

Ben diverso il caso dei ‘dipendenti di palazzo’ o del tempio, che vivono entro le loro mura: spesso specialisti, non possiedono i mezzi di produzione ma talora ne dominano il funzionamento. Tanto da essere assai contesi dalle varie corti.
L’arte è la capacità tecnica. In casi molto speciali, artisti e decoratori vivono in città del lavoro (non è che le parti illuminate del capitalismo moderno abbiano poi scoperto molto) come la straordinaria Deir-el-Medina, luogo di dimora nel XII secolo a.C. di migliaia di specialisti occupati nella ‘Valle dei Re.’ I cui straordinari reperti, tantissimi di ostraka figurati – al di fuori del canone e dell’orario di lavoro – mostrano la forbice fra lavoro coatto e lavoro creativo e criticano il potere.

Il crollo dei sistemi palatini, attorno al 1200 a.C., avvenne per molteplici ragioni, ma le età successive videro il grande ruolo degli specialisti, talora fuoriusciti dal ruolo di ‘dipendenti di palazzo. E il grande fenomeno delle colonizzazioni dell’VIII secolo a.C., dell’affermarsi nel nostro Mediterraneo di Fenici, Etruschi e Greci dipese fondamentalmente dal possesso del sapere legato alle produzioni e ai processi più importanti.
Il lavoro non è punizione se lo controlli, se ne possiedi i mezzi, se ne interpreti almeno in parte i flussi e ne sei autore riconosciuto. Il pensiero greco talora non ha grande considerazione degli artigiani, ma le botteghe ceramiche iniziano a proporre prodotti firmati dagli autori.
Nel piede della celebre ‘Coppa di Dioniso’, una kylix attica a figure nere del 530 a.C., vi è scritto ‘Exekias me poiese’ (Exekias mi fece).
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Agli albori dell’età moderna (ovvero dal 1492) le scoperte scientifiche diventano esposizione programmata: duchi, principi e re si contendono scienziati ed inventori. L’arte del passato (anche quando nel suo presente non lo era affatto), diventa momento di riflessione e ispirazione. Sono i filoni che porteranno alla nascita dei musei.

Con la rivoluzione digitale e dell’immagine, sembra che si stia verificando la fine del lavoro. Sarebbe meglio dire, la fine del ruolo del lavoro di massa. Eppure, ancora per molto tempo, non ci nutriremo di pastiglie o intrugli liofilizzati come astronauti, e le produzioni materiali in grande scala e quantità: chi le produrrà? Con quale profilo qualitativo?

Nello stesso tempo, come dicevamo all’inizio, aumenta il lavoro di una conoscenza legata non solo alla formazione, all’istruzione, alla ricerca, ma in linea più generale all’organizzazione del godimento di beni comuni come paesaggio e cultura. E aumenta di molto il suo potere, che si gioca sul piano dei saperi specifici e su quello delle tecnologie digitali, dove è in corso una straordinaria battaglia fra software libero e ‘chiuso’.
Il lavoro cognitivo può diventare un processo vasto e non elitario, ma nel contempo di natura pubblica. E’ un processo che si può dirigere? Sul quale orientare, e come, politiche della sinistra?
Vedo due filoni: il primo (se vogliamo classicamente marxista) è quello che mira alla realizzazione della propria personalità in modo pieno e creativo, al di fuori dell’alienazione.
Un obiettivo davvero strategico, perché la nostra ‘globalizzazione’ potrebbe far diminuire radicalmente, con le tecnologie in possesso, il tempo salariato a favore del tempo liberato, e far fuoriuscire nella società la personalità di ognuno. Le ore salariate ’liberate’ dovrebbero essere coperte dal reddito di esistenza e produrre ‘lavoro’ non subalterno.
La capacità cognitiva dovrebbe essere quindi destinata a investire su fini socialmente sostenibili e non militari. La scienza, ovvero i saperi, spinta verso la liberazione e non verso il dominio. Ciò ripropone ovviamente il tema della critica a ciò che si produce, del governo della produzione a favore dello sviluppo sostenibile, quindi della sua trasformazione.

Infine: l’espandersi globale dell’industria del tempo libero, per quanto fenomeno non lineare, porta a collegare lo stesso ai beni culturali e paesaggistici. Una grande industria che può essere governata dallo straordinario capitale cognitivo formatosi negli ultimi decenni del Novecento e che continua a formarsi agli inizi del terzo millennio.
Si tratta di una battaglia importantissima a favore del pianeta. In Italia può unire in un nuovo fronte i lavoratori, a partire da isole e mezzogiorno, depositari delle reti più vaste del nostro patrimonio storico e artistico. Le forme di democrazia dal basso potranno diventare tali con il controllo lavorativo e cognitivo di un mezzo di produzione fondamentale: i territori. E i nostri territori potrebbero guidare, con il lavoro cognitivo (che non separo affatto da quello ‘materiale’) un processo più vasto.

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