L’isolazionismo tedesco e la perdita di prestigio dell’Unione Europea

16 Febbraio 2016
Money-Hole
Gianfranco Sabattini

La crisi greca ha infranto l’ideologia europeista. L’Unione Europea era solita erigersi “a stadio supremo della fenomenologia dello spirito europeista. Paradigma universale di civiltà. Fondata sul primato del diritto. Sulla pace perpetua. Privilegio riservato per ora al 7% dell’umanità, in attesa che il faro di Bruxelles, illuminando il resto del pianeta, lo convertisse per gradi all’euroreligione. L’homo europaeus quasi compimento della specie” (Editoriale di “Limes” n. 7/2015, “Sembrare ed essere”).

Il “detonatore” della reale eurocrisi è stata la Grecia che ha originato un deterioramento così profondo nei rapporti tra gli Stati membri dell’UE, da indurre a pensare che l’eurozona non potrà più essere ciò che era sino alla vittoria ad Atene di Syriza. Certamente il peso economico della Grecia all’interno dell’Unione vale meno del 2% del PIL comunitario, però il suo peso metaeconomico, e soprattutto geostrategico, vale ad assegnargli una valutazione che equivale a molte volte di più del suo prodotto interno lordo.

A parte ogni considerazione concernente il fatto che la Grecia, considerata la sua appartenenza all’immaginario collettivo dell’umanità per il contributo alla formazione della cultura occidentale e per aver dato origine al nome stesso di Europa (accrediti, questi, che rendono impossibile negare la sua europeità), vede esaltata sul piano strategico la sua importanza, sino a rendere intollerabile la possibilità che, con la sua fuoriuscita dall’eurozona, possa essere messa in crisi la strategia difensiva della NATO in un punto nevralgico del Sud-Est dell’Europa.

Gli USA, magna pars dell’alleanza atlantica, consapevoli delle conseguenza geopolotiche che potrebbero derivare dall’uscita della Grecia dall’euro, trascurando la retorica da guerra fredda, secondo cui sarebbe la Russia ad avvantaggiarsene, mostrano invece d’essere molto più preoccupati dei danni che possono manifestarsi solo nel medio-lungo periodo. L’attuale eurocrisi, secondo l’Editoriale di “Limes” avrebbe riaperto per gli USA la “questione tedesca”, che si manifesterebbe con l’inconciliabilità fra potenza economica teutonica e stabilità europea. “La Germania è divenuta “insieme troppo e troppo poco influente per assicurare l’equilibrio continentale. Troppo perché il benessere e persino la sopravvivenza dei singoli Stati dell’Eurozona – Grecia docet – sono messi in questione dalla geopolitica economica di marca tedesca, dalla ‘germanizzazione’ della moneta ‘unica’. Troppo poco perché tale strategia è fondata sull’esclusiva protezione dei propri immediati interessi, dunque priva di afflato egemonico”.

Tale stato dei fatti segnerebbe la differenza tra l’America e la Germania, fra la “vecchia e la nuova supremazia europea”. Il ruolo esercitato da Washington sull’Europa occidentale fra il 1945 e il 1990 poggiava sul vantaggio reciproco, con il conseguente coinvolgimento dei Paesi protetti nel soddisfacimento degli interessi comuni; per questo motivo, gli “interessi vitali dell’egemone e dei satelliti coincidevano”. Al contrario, la potenza tedesca non protegge gli interessi di nessuno, inclusi i propri, nel senso che l’Europa vista da Berlino “deve adattarsi all’ideologia economica e monetaria tedesca codificata nell’Ordoliberalismus”; ciò però non può comportare l’attivazione di alcun automatismo per cui “i Paesi fiscalmente ‘virtuosi’ riparino alle dissolutezze dei ‘viziosi” euromediterranei”.

Semmai, l’automatismo attivato dall’ideologia ordoliberalisita funziona al contrario, in quanto la Germania è in surplus commerciale permanente rispetto alla periferia comunitaria, nel senso che drena liquidità dagli altri Stati membri dell’eurozona, ai quali per curare i propri “mali” vengono imposte severe politiche di austerità, che originano solo deflazione, i cui effetti negativi finiscono per ripercutersi sulla stessa Germania. “Animata dalle migliori intenzioni – la diffusione delle proprie ‘virtù’ – Berlino pretende dai soci condizioni impossibili, quasi che tutti volessero diventare tedeschi”. Persistendo nella sua politica esclusiva, la Germania mostra di preferire la convivenza con una doppia responsabilità, quella connessa alla rinuncia d’essere un razionale gestore della performance del suo successo economico e quella connessa al suo ruolo di regolatrice degli equilibri geopolitici continentali europei e non solo.

Riguardo al primo aspetto, sembrano rimossi dalla memoria il fatto che il miracolo economico tedesco è stato favorito dal taglio del debito postbellico ottenuto nel 1953, che l’impetuosa crescita, registrata dopo l’annessione della Germania dell’Est nel 1990, ha goduto della partecipazione europea al trasferimento di risorse verso i Länder orientali e che, da quando esiste l’euro, Berlino ha violato più volte le regole di austerità imposte agli altri Paesi. Riguardo al secondo profilo, quello relativo al ruolo di regolatore degli equilibri geopolitici, la propensione della Germania è quella di “scansare” le crisi, nonostante che ad essa sia stata assegnata dagli USA la funzione primaria d’essere la rappresentante degli interessi atlantici nel Vecchio Continente.

La situazione complessiva originata dalla rinuncia della Germania ad accollarsi la responsabilità di gestire al meglio gli equilibri economici e geopolitici del continente europeo, emersi soprattutto con la crisi greca, sembra non suggerire alle principali potenze mondiali atteggiamenti propri della guerra fredda, nel senso che nessuna di esse pare voglia approfittare delle situazioni di crisi esistenti e tutte sono interessate ad evitare che la Grecia esca dall’euro, anche se per diversi motivi: l’America, per impedire che si apra una falla nello schieramento NATO nell’Europa del Sud-Est; la Russia, perché è interessata a conservare fra i membri dell’eurozona un possibile alleato nella difesa della propria causa, riguardo al problema delle sanzioni europee causate dal conflitto ucraino; la Cina, perchè, se la Grecia uscisse dall’euro, vedrebbe vanificati i propri sforzi per incrementare, con gli investimenti effettuati nel Paese ellenico, la propria presenza nel Mediterraneo.

In conclusione, la crisi greca ha fatto emergere che la preoccupazione più rilevante per l’eurosistema consiste nel pericolo che il persistere della Germania a rimanere “arroccata” dietro il proprio egoismo nazionale possa portare l’Europa ad essere un continente sempre più in declino; tale stigma – osserva John Hulsman, in “Perché Obama teme il grexit” (“Limes” n. 7/2015) – è causato dal fatto che la crisi greca è divenuta “tout court” sinonimo di egemonia economica tedesca sul continente, per cui la Germania, rinunciando a svolgere il ruolo politico di garante degli interessi degli altri Stati membri europei, oltre che dei propri, causerà un continuo processo di emarginazione dell’Europa, limitandone la capacità di esercitare una qualche influenza internazionale quando ricorrono crisi regionali.

Inoltre – quel che più conta – l’”ostinazione” con cui la Germania tende sempre più verso posizioni isolazioniste causerà il collasso dell’intera costruzione comunitaria. Infatti, l’unica strategia percepibile oggi in Germania, secondo le dichiarazioni di gran parte della sua società politica, è quella di costituire un “nucleo europeo”, centrato sull’area settentrionale del Continente, che varrebbe a dissipare “il ‘dividendo della Pace’ regalato all’Europa dalla vittoria statunitense sull’Unione Sovietica”. Per scongiurare questo pericolo, Francia, Italia, Spagna, Balcani e i Paesi dell’Est europeo devono necessariamente impegnarsi a conservare la Grecia nell’eurozona, convinti che questo obiettivo, oltre che valere i miliardi del debito greco, può costituire l’occasione per rilanciare l’idea originaria dell’Unione Europea e ricuperare l’impegno di tutti gli Stati membri dell’Unione, Germania inclusa, a realizzare gli obiettivi sanciti nei Trattati costitutivi dell’Europa unita.

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