Ma di che ridono i sardi?

1 Gennaio 2021

[Alfonso Stiglitz]

“Terra magica di tradizioni, cultura, ospitalità. Terra di eroi e giganti, di nuraghi, di centenari e bellezza, di conquistatori e dominatori. Sardegna dove il maestrale soffia forte e la gente è fiera”.

Così la recente campagna pubblicitaria della Regione ci dipinge, secondo gli stilemi della narrazione del colonialismo compassionevole, già utilizzata dagli antichi scrittori romani. Banalità che continua in un crescendo quasi grottesco, chiosato dalla perla della foto del tempio romano di Antas, ricostruito in età moderna, accompagnato dalla didascalia: “I nuragici erano popolo fiero, affascinante e misterioso”. Talmente misterioso da aver costruito anche i templi romani. Un’autentica magia alla Harry Potter.  

La Sardegna, ormai assodato, è sede di tutti i miti, pseudo-miti, fanta-miti del mondo, una sorta di vaso di Pandora o di otre di Eolo, se preferite, nel quale tutto è rinchiuso: l’Isola dei Feaci, l’isola di Nausicaa, Tartesso e, of course, il mito più mito di tutti, Atlantide. Tutto è avvenuto in Sardegna e tutto è avvenuto prima del prima, la terra dei primati: l’alfa e l’omega della storia del mondo. Mai aprire i vasi e gli otri, ci avvertivano gli antichi.

In realtà nessuno dei casi citati, dai Feaci ad Atlantide era un mito, ab origine; racconti di Omero e altri gli uni, di Platone gli altri e, financo, della Bibbia. Racconti che diventano un mito per noi, perché la nostra è un’isola mitica; ergo, le storie del mondo che, ovviamente, sono storie sarde, sono dei miti. Lo dice anche la nostra Regione (Autonoma, si intende, anche dalla realtà storica): eroi, giganti, fascino e mistero.

Ma si può scherzare con/sui miti, come spesso faciamo? Chiunque abbia ironizzato sul tema si è beccato sequele di insulti nei social oppure, più onorabilmente, accuse di mitofobia da parte di studiosi o intellettuali indipendentisti, autonomisti, insularisti (ora abbiamo anche i fan dell’insularità in Costituzione) o, per meglio dire, presunti tali. In altre parole la mitopoiesi sarebbe una cosa seria e fondamentale per dare un senso alla nostra Nazione, Sarda ovviamente, a prescindere, anche quando i (presunti) miti sono frutto di pamphlet giornalistici (Frau), di vanitosi divulgatori (Tozzi, Giacobbo) o delle pulsioni erotiche giovanili, verso le donne sarde, di attempati critici d’arte (Sgarbi), testimonial della nostra isola mitica, per conto della Regione (sempre Autonoma). Secondo questa visione antropologico-situazionista, siamo una nazione non per libera scelta dei suoi membri ma perché siamo in grado di ‘inventarci’ un mito che ci renda tale, arcaici, incontaminati, fissati in eterno nel nostro misterioso e magico passato. E il mito è tale se è accettato a furor di popolo, magari a seguito delle centinaia di presentazioni del libro che proprio quel mito ha inventato. Quindi il mito è una cosa seria e guai a chi ci ironizza su.

D’altra parte noi tutti abbiamo letto accuratamente Claude Levi Strauss (l’abbiamo fatto, vero? Non ci siamo limitati ai titoli o al risguardo di copertina, vero?) e per CLS (i francesi amano gli acronimi e noi ci adeguiamo) i miti sono cose serie; per tutti noi e, soprattutto, per gli antropologi i miti, i racconti, sono da prendere sul serio, ci mancherebbe.

Ma, c’è sempre un ma! I popoli che si sono (auto)dotati di miti, li ritengono una cosa seria?

Tanti anni fa un antropologo, Pierre Clastres, allievo di CLS osò porre quel ‘ma’. Clastres a me piaceva (e piace) perché osava dire che “la storia dei popoli, che hanno una storia, è, si dice, la storia della lotta delle classi. La storia dei popoli senza storia è, si dirà con almeno altrettanta verità, la storia della loro lotta contro lo Stato”. Oggi è ancora uno dei miei percorsi di lettura e ricerca, anche se penso a una situazione un po’ più complessa, cioè forme di lotta di classe anche in assenza di Stato o, meglio, nel suo processo di formazione (magari nel mondo nuragico?). Ma questo è un altro discorso. Torniamo a noi.

Pierre Clastres osò l’inosabile e scrisse nel 1967, su “Les Temps Modernes” di Jean Paul Sartre (ça va sans dire) un saggio che poi trovò spazio nel suo più celebre libro, pubblicato una decina d’anni dopo e fortunatamente tradotto in italiano: «La società contro lo Stato». Il saggio, diventato capitolo nel libro, porta uno straordinario titolo: “Di che cosa ridono gli Amerindiani?”. Ci racconta che spesso i raccontatori e gli ascoltatori del mito non credevano a esso e anzi ironizzavano sulle storie, lasciandosi andare a sane risate svelando così la loro «funzione esplicita di divertire gli ascoltatori, di provocarne l’ilarità». E, probabilmente, anche prendere in giro l’antropologo di turno, piombato in mezzo alla società ‘selvaggia’ (ma non tanto). Per Clastres, quindi, anche nei Tristi tropici di CLS si poteva ridere e vivere non sempre angosciati nel buio della preistoria. Anzi la risata è il sano antidoto ai problemi della vita quotidiana, allontana la paura e, sostanzialmente, ci ridimensiona portandoci a un livello più normale. Un po’ come nella straordinaria espressione cagliaritana: “ma ti pozzu toccai?”.

Dice saggiamente Clastres «Forse, però, il recentissimo interesse suscitato dai miti rischia di indurci, questa volta, a prenderli troppo ‘sul serio’, se così si può dire, e a fraintenderne la qualità: col lasciare insomma nell’ombra i loro aspetti meno tesi, finirebbe per diffondersi una sorta di Mitomania dimentica di un carattere peraltro comune a molti miti, e non tale da escludere la serietà: voglio dire il loro humour».

E quindi, suvvia, con il nuovo anno facciamoci prendere dall’allegria, rassereniamoci e scherziamo sui nostri (pseudo)miti. Miti? Ma ti pozzu toccai?

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