Lo spettacolo del Lupercale

1 Dicembre 2007

MONETA ROMANA
Marcello Madau

Nella definizione dell’identità il mito delle origini e la relativa celebrazione assumono sempre un ruolo fondamentale. La straordinaria questione del Lupercale e della Lupa capitolina, che avrebbe allattato in un freddo antro nei pressi del colle Palatino Romolo e Remo, è balzata ai clamori della cronaca per il ritrovamento di uno spettacolare ninfeo della prima età imperiale, lanciato dal Ministro Rutelli come il luogo dove era ubicata la grotta del mito.
Davvero il Lupercale? Andrea Carandini, vulcanico nume archeologico dell’Urbe giura che sì. Angelo Bottini, attuale soprintendente archeologo, auspicando fondi per gli scavi nel Palatino appoggia l’interpretazione. Ma altri due insigni archeologi come Adriano La Regina e Fausto Zevi dissentono: non si tratta affatto del Lupercale, che va cercato da un’altra (non lontana) parte.
La questione è di eccezionale interesse scientifico perché da molto tempo vengono proposte diverse ubicazioni per il Lupercale, ed il ninfeo riccamente decorato che la telecamera scesa in profondità – ben 16 metri – ha scrutato con occhio efficace, era noto, ricorda Adriano La Regina, già dal Cinquecento, come sappiamo dal Marliani, di cui furono pubblicati, fra il 1534 ed il 1588, diversi lavori di topografia sulle antichità romane.
Guy Debord avrebbe trovato esemplare il caso di un’archeologia sempre più sottoposta alle leggi della società dello spettacolo; il grande evento, il fascino delle origini, la voglia di affermazione politica e forse anche la nostalgia, per il Ministro Rutelli, di essere stato sindaco di Roma: una miscela davvero esplosiva. A ciò si aggiunga che l’attuale sindaco dell’Urbe potrà dire: il Lupercale è certamente qua, ma anche là.
Il clamore del grande evento ha fatto irruzione nelle grida del dibattito politico romano con un tempismo preoccupante, condito persino da attacchi personali poco decorosi fra accademici (leggiamo su un foglio web romano che Carandini, indispettito dalla posizione di Adriano La Regina, ha detto: “Le affermazioni di La Regina non sono vere, lui agisce sempre per impulsi irrazionali.”). Non è un bel vedere. La grave violazione dei tempi e della modalità di comunicazione della scoperta – la quale come abbiamo visto, non è definibile con immediata univocità – dipende da ragioni profondamente estranee al campo della ricerca archeologica e della storiografia, sottratte ai passaggi tipici della comunità scientifica: scavo, documentazione, studio, presentazione a convegno e/o in rivista, discussione della comunità a falsificare e a verificare, e quindi enunciazione definitiva della la tesi, o il suo ritiro, dopo questo irrinunciabile vaglio.
Il livello ci sembra quello di un ben orchestrato spot finalizzato all’ottenimento di consenso politico e ricerche scientifiche più insidioso del celebre lapsus ignorantello di Silvio Berlusconi (Romolo e Remolo). La ‘grande archeologia’ evidenzia una sempre più marcata sudditanza alle leggi della pubblicità e della merce, anche da noi, come ben notato due numeri addietro su questo quindicinale da Antonio Mannu a proposito della recente mostra “The Fenici Portrait”, con molte patinature e pochissimi fenici. Non è questa la ‘valorizzazione economica’ dei beni culturali che auspichiamo, né la formazione e l’educazione che dobbiamo agli studenti che scelgono questa professione.
Ma l’aspetto tocca le corde dell’identità con risonanze interessanti e un po’ impreviste, che dipendono forse dall’attitudine ferina della lupa: nello sconforto delle precedenti notazioni troviamo in tale ‘confusione’ qualche lume di speranza, poiché di fatto opera costruttivamente sui solidi assetti simbolici dell’identità. Questo animale nomade e fascinoso ci sembra davvero incorreggibile: la vicenda di Romolo e Remo consegna la gloria della patria a contesti multiculturali, perché il mito fa risalire la discendenza ad Enea, eroe troiano: anatolico grecizzato, oggi diremmo turco. E il latte selvatico della lupa nutre due gemelli abbandonati dopo una violenza divina (Marte) su una vestale (Rea Silvia). Le sue peregrinazioni antiche toccano la Sardegna, perché l’etruscologo Giovanni Colonna, dopo le analisi che hanno individuato la presenza di piombo sardo (dalle miniere di Cala Bona, presso Alghero), la pensa di mano punica di Sardegna del V secolo a. C.: a parte la curiosità di una Cartagine che avrebbe realizzato con le sue botteghe sarde il massimo simbolo di Roma, vi è stato persino qualche sardo fiero – la solita, provinciale voglia di esserci – di aver contribuito alla nascita della città eterna.
Identità voltate e rivoltate, specchi che riflettono le immagini imposte e quelle scelte, sempre meno distinguibili e sempre più fragili nella definizione unica ed esclusiva. Poi la lupa, irrequieta, abbandona l’antichità classica per scendere sino al medioevo, grazie alla rivoluzionaria attribuzione fatta da Adriano La Regina e dalla restauratrice Anna Maria Carruba. Le proteste ci sono, le certezze fortunatamente meno solide. O più irragionevoli e perciò, più pericolose. Il Pollaiolo aggiungerà nel Cinquecento i due gemelli alla fiera femminea, ma un suo fratello lupo ci aveva già spiazzato, per un attimo, assieme al giullare di Dio.
Ma la fiera ci regala diversi colpi ad effetto nel centro Europa sino all’Oriente: se una copia della Lupa Capitolina fu donata nel 1926 dal fascismo alla Romania (nonostante la strenua resistenza dacia immortalata nella colonna traiana), nel 1962 l’archeologo russo Numon Negmatov scopre nel Tagikistan un affresco con lupa allattante due gemelli databile all’VIII secolo d.C., in contesto culturale turco. Infine, in una leggenda orientale l’eroe iranico Kir viene salvato ed allattato da una lupa.
I percorsi nomadi di questi feroci ed amorevoli animali ci appassionano; assieme allo scarabeo stercorario ci portano, più tortuosamente ma con maggiore irriverenza e libertà, verso territori ancora da esplorare, mentre scendono a branchi dalle montagne.

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