Nel nome del padre

1 Marzo 2014
affresco 1856
Silvana Bartoli

«Mi unisco alla ‘Marcia per la vita’ di Washington con le mie preghiere. Possa Dio aiutarci a rispettare ogni forma di vita, in particolare le più vulnerabili».
Difficile non condividere questo appello papale in difesa delle creature più deboli. Mi aspetto quindi, a breve, marce per la vita davanti alle fabbriche di armi; invece, su Internet, trovate schiere di vescovi che benedicono armi e continuo a non capire perché il rivoluzionario Francesco abbia messo a capo della sua banca un fabbricante di armi.
Forse perché, per la chiesa cattolica, la difesa della vita passa prima di tutto attraverso il controllo del corpo femminile?
Per secoli i leader religiosi hanno “interpretato” la parola di Dio per attribuire a se stessi il dominio sulle donne, giustificando molto spesso la violenza maschile.
In Spagna, il governo Rajoy ha in programma una legge restrittiva sull’interruzione di gravidanza appoggiata dalle associazioni cattoliche, che considerano tale interruzione un omicidio. Bisogna dire subito che è piuttosto recente il riconoscimento dell’embrione come persona: nella tradizione della chiesa non c’era proprio e il clero ha chiuso entrambi gli occhi davanti all’aborto clandestino che falcidiava le donne in età fertile.
Ovviamente non si vuole dire che l’interruzione di gravidanza sia una scelta facile, anche in casi di estrema necessità, ma non è pensabile risolvere il problema tornando a una legislazione che preveda condanne penali, perché questo dirotterebbe le donne che non hanno altra scelta verso chi pratica l’aborto clandestinamente e per denaro.
Più vicina a certe usanze cattoliche di quanto avrebbe voluto, Marguerite Yourcenar rifletteva: “non amo l’aborto ma l’epoca lo esige; comunque vorrei che un rito di preghiera sia previsto per l’uomo e la donna che hanno, anche se saggiamente e per evitare il peggio, eliminato una vita. Questo non cambierà nulla, certo, ma farebbe riflettere sulla gravità dell’atto e forse potrebbe spingere gli interessati a prendere precauzioni meno tardive”.
Il fatto è che molti leader religiosi si sentono in diritto di proibire le precauzioni.
Grazie alle aperture che il nuovo papa lascia intravedere per il femminile, forse la gerarchia smetterà di dar credito unicamente all’interpretazione maschile della legge divina, lasciando spazio alla competenza e al sapere delle donne che, almeno per quanto riguarda il loro corpo, non dovrebbero avere il solito ruolo di ancillare obbedienza.
La maternità responsabile è una realtà che in molti paesi si sta compiendo, ma sappiamo bene che i nostri cosiddetti politici lo capiranno solo quando il Vaticano darà loro il permesso.
In una società che aspira ad essere giusta, il diventare madre dipende da una scelta personale, e il bambino o bambina nascono perché desiderati dai genitori. Dunque la maternità voluta è il dono più grande che si possa fare alle generazioni future.
Personalmente ho grandi difficoltà ad accostare alla parola aborto la parola diritto, penso sia una opzione mai facile, sono però altrettanto convinta che soltanto le donne, ogni donna, possa decidere cosa è giusto, cosa è sbagliato per la vita che sta nutrendo col suo corpo; né leggi, né religioni, quasi sempre costruite al maschile e per il maschile, devono intervenire, ogni donna saprà chiedere aiuto e consiglio alle persone che sente vicine.
Alcuni filosofi hanno visto nei popoli che si sono lasciati sottomettere dalle religioni un comportamento infantile, incapace di usare tutte le naturali potenzialità umane, e li hanno considerati dunque bisognosi di essere educati tramite discorsi fatti appositamente per loro.
Allo stesso modo molti religiosi e i legislatori sono convinti che le donne siano delle minori a vita, incapaci di gestire il proprio corpo e quindi bisognose di norme che le mettano sul binario giusto. Lo spiega efficacemente l’affresco che ho messo in copertina: la madre è soltanto grembo, cioè contenitore, utile ad accogliere la sapienza del padre. Non siamo poi così lontani dalla passività riproduttiva che Aristotele attribuiva alle donne e che determinava la sudditanza sociale e giuridica. Più di duemila anni di storia sembrano essere passati invano.
Credo che sia proprio un atavico bisogno di dominio ad aver guidato la legge 40, così come, a livello di conseguenze meno drammatiche, quella sulla continuità del cognome maschile.
Infatti, nonostante la censura della Corte di Strasburgo, in Italia si sta avviando un progetto di legge che, ancora una volta, sembra ispirato da premesse sbagliate, in quanto prevede che il bambino/ la bambina assuma “naturalmente” il cognome del padre e, solo in caso di dichiarato accordo tra i genitori da far registrare al momento della nascita, possa assumere quello della madre o di entrambi i genitori.
Una formulazione dunque che privilegia ancora il cognome paterno, attribuito automaticamente, mentre è necessaria una richiesta esplicita per attribuire quello materno o di entrambi i genitori. Un po’ come avviene per l’insegnamento della religione cattolica: bisogna presentare esplicita richiesta per non avvalersi.
Sicché rieccoci: entra di un nuovo in scena la solita logica che condiziona tutte le procedure quando si toccano argomenti che hanno a che fare con la famiglia, la nascita, la morte, ovvero tutti quei temi che il Vaticano vuole controllare e normare.
Lo abbiamo visto con la legge sulla riproduzione assistita: una delle leggi più restrittive, in netto contrasto con il resto d’Europa, bocciata più volte nelle aule dei tribunali, una legge che sta perdendo i pezzi in virtù di molti suoi aspetti ritenuti incostituzionali; lo stiamo vedendo con le coppie omosessuali, e la stessa scena sembra ricominciare con il cognome.
Ma il patriarcato potrà fare a meno dell’autorità “naturale” che viene dalla visibilità unica del nome maschile?
E “santa-madre-chiesa”, senza l’approvazione della quale molti nostri legislatori non sono in grado di decidere, potrà fare a meno della tradizione patriarcale su cui si è costruita nel nome del padre?

 

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