Omicidio Marotto

16 Gennaio 2008

Giovanni Meloni

L’omicidio di Peppino Marotto, seguito dopo appena sei giorni da quello dei fratelli Mattana, insieme all’orrore per i fatti in sé e alla naturale domanda di giustizia, ha suscitato, l’esigenza di conoscerne il movente, con particolare riferimento al processo mentale che lo ha determinato. Ciò non solo per le qualità della vittima, ma soprattutto perché, a causa del luogo e dell’ambiente sociale in cui è maturato, tale delitto propone interrogativi che attengono all’analisi dell’evoluzione dei fenomeni criminali in Sardegna. Tali interrogativi hanno determinato una divisione, sia pure non sempre nettamente delineata (e del resto non nuova), fra quanti hanno proposto una interpretazione, in assenza di risultati investigativi.
Chi è propenso a ritenere che l’omicidio Marotto sia da ricondurre a vicende pregresse, è indotto a riconoscere nell’episodio un caso di applicazione di vecchie regole ordinamentali (il “codice barbaricino” studiato da Antonio Pigliaru). Chi, al contrario, ritiene che non siano fantasmi del passato ad aver guidato la mano assassina, ma qualche recente episodio, magari connesso a forme nuove di delinquenza, come il traffico di droga, è portato a escludere che in una società in cui tutto è cambiato (compreso il peso relativo della base sociale del “codice”, ossia la comunità pastorale) possano ritenersi ancora operanti regole che non hanno ormai più niente a che fare con l’ambiente sociale. Gli omicidi di Natale a Orgosolo, perciò, sarebbero da ritenersi una delle manifestazioni dell’uso della violenza non dissimile da quello che caratterizza i fenomeni delittuosi in altre parti dell’Isola e, più in generale, in altre parti del Paese.
Confesso che nessuna delle due tesi mi sembra appagante ed, anzi, sospetto che, restando prigionieri dell’alternativa che esse propongono, sia difficile darsi una spiegazione e ancor di più prospettare misure tendenti ad evitare il ripetersi di fatti consimili. Si può certo pensare che l’assassinio del poeta cantore non sia legato a vicende del passato (e personalmente sarei propenso a crederlo), ma questo delitto ha contorni che non consentono di pensare che si tratti di un atto di violenza che si sarebbe potuto compiere in qualsiasi altra parte dell’Isola. Chi ha agito sulla pubblica via in pieno giorno e in pieno centro, chi ha esploso ben sei colpi in sequenza, gli ultimi dei quali quasi a bruciapelo, chi ha potuto ideare di far tutto ciò nei confronti di un uomo notissimo e stimato, il quale poteva contare su molti amici, almeno di una cosa deve sentirsi certo, ossia che in quel contesto sociale vige ancora una regola in forza della quale chi ha visto, chi sa (anche senza aver visto), chi può sapere, chi è comunque in grado di indirizzare verso il colpevole la giustizia dello Stato non parlerà. Dispone della prova provata di ciò, perché un altro omicidio di Natale, quello di don Graziano Muntoni, vice parroco di Orgosolo, ucciso otto anni fa con modalità non dissimili, non ha suscitato la minima collaborazione con gli investigatori, malgrado la forza e la universalità della condanna che allora, come oggi, ha stigmatizzato quel crimine. Ma conosce anche una prova a contrariis, perché sa che quando si infrange la regola del silenzio (omertà, a voler essere precisi) come ha fatto Paola Monni, ragazza di Orune che ha denunciato gli assassini del proprio fidanzato, si viene isolati, si è costretti a vivere sotto scorta, si deve abbandonare la propria terra.
Se poi prendesse una qualche consistenza l’ipotesi che l’omicidio dei fratelli Mattana sia l’atto con cui si è voluto far giustizia (vendetta) per l’assassinio di Peppino Marotto, allora la persistenza di certe regole del passato non avrebbe bisogno di ulteriore dimostrazione. Né di tale dimostrazione vi sarebbe bisogno, a ben vedere, anche se tale relazione diretta non dovesse esservi, giacché anche in questo caso le modalità del fatto e, in particolare, l’accanimento con cui gli assassini hanno infierito sui volti delle vittime indica che si è trattato di una vendetta o che, comunque, si è voluta inscenare una esecuzione che potesse essere riconosciuta dalla comunità circostante come tale.
Con quanto precede si dimostra, dunque, che l’”ordinamento barbaricino” debba essere considerato ancora vigente? Certamente no. Mi pare piuttosto che gli eventi di Orgosolo costituiscano una verifica ulteriore dei risultati di una recente ricerca condotta presso l’Università di Sassari da una equipe diretta da Antonietta Mazzette su “La criminalità in Sardegna”. Tale ricerca ha messo in evidenza che, con riferimento ai reati violenti (segnatamente gli omicidi), la criminalità isolana presenta ancora un carattere dualistico già rilevato da precedenti studi. Vi è una parte della Sardegna, la più consistente in termini di popolazione e territorio, che sembra omologarsi alle dinamiche nazionali, in particolare a quelle delle regioni centro-settentrionali; ma vi è un’altra parte, approssimativamente individuabile come “Zona centro orientale”, comprendente i comuni della Province di Nuoro e dell’Ogliastra, quelli del Goceano, Pattada, nonché alcuni centri della Gallura e dell’alto oristanese, nella quale l’esercizio della violenza appare assai più marcato, assai più numerosi essendo qui gli omicidi, ma anche le rapine a mano armata e gli attentati a mezzo di esplosivi e, in generale, l’uso delle armi. Se si tenta di spiegare il persistere di tale dualismo, si può constatare come i processi economici e sociali degli ultimi decenni, mentre hanno mutato la struttura anche delle aree interessate, determinando così la scomparsa del “banditismo classico”, che grosso modo in esse si era storicamente sviluppato, non hanno risolto i problemi sociali di fondo.
Il tramonto delle speranze connesse all’industrializzazione, insieme all’avvio di un modello di sviluppo turistico imperniato essenzialmente sulle coste, hanno creato nuovi squilibri territoriali e accentuato quelli esistenti; sono rimasti insoddisfatti i vecchi bisogni (il lavoro innanzitutto) e se ne sono creati di nuovi, difficilmente evadibili, mediante la diffusione di modelli di consumo esasperato. Tali fenomeni hanno lasciato spazi al perpetuarsi di archetipi di una società non più esistente, proprio perché elementi di un ordinamento avvertito come proprio, a preferenza dell’ordinamento dello Stato, ancora una volta incapace di risolvere “con giustizia” i problemi della comunità. A scapito dell’agire sociale, ha trovato esaltazione l’individualità, portata all’esasperazione da quel misto di forza e di astuzia che è la balentia.
Ecco allora che la violenza, ricondotta ad una antica identità, ossia a un valore, non è avvertita come disvalore dalla comunità, o almeno da una sua parte rimarchevole. La inosservanza delle regole legali trova così una giustificazione ideologica nel passato, rendendo vano ogni appello alla collaborazione rivolto a “quanti sanno” dagli investigatori e non solo. Insomma la violenza del balente (che si autointende come resistente e paladino dell’identità) non potrà essere eliminata senza una grande opera di educazione alla legalità. Gli strumenti di una tale educazione sono molteplici, a partire dalla scuola; il loro esame non può certo essere compiuto in questa sede. Mi sembra opportuno soltanto precisare che legalità e identità non solo non sono contrapposte, ma anzi che l’identità intanto può evitare di essere confinata nella riserva delle tradizioni popolari da rispolverare a data fissa, in quanto sia capace di attualizzarsi, cioè di connettersi intimamente alla pratica delle regole della democrazia, attraverso le quali un popolo determina consapevolmente la propria volontà e trasforma la violenza da fenomeno sociale a fatto individuale, scaricando su chi la usa la propria riprovazione.

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