Per una filosofia della casa

1 Novembre 2021

[Roberto Paracchini]

Per moltissime persone, forse per la maggioranza, la parola “casa” è associata all’idea di riparo, rifugio, nido, spazio in cui vivere, stare, abitare, che dal latino habitare diventa interscambiabile nei tre significati accennati.

Luogo separato, quindi, più estensione dei nostri affetti e regno della nostra intimità che palestra di vita in seno all’urbe, lontano anni luce dall’agorà che forgia, o dovrebbe forgiare, il senso civico: la piazza, la via, la bottega, il mercato, il luogo pubblico dove si svolge la vita della città. Ambiente, quello della casa, estraneo alla riflessione filosofica che, come sottolinea Emanuele Coccia nel suo libro Filosofia della casa. Lo spazio domestico e la felicità (Einaudi), dall’antica Grecia ad oggi ha sempre riguardato temi estranei alle mura domestiche. Ad eccezione – si potrebbe aggiungere – delle stimolanti e illuminanti riflessioni di filoni del moderno pensiero femminista sull’etica della cura (come, ad esempio, quelle di Nancy Fraser, Carol Gilligan e Maria Zambrano), “la modernità filosofica ha puntato tutto sulle città”. Coccia (docente all’Ecole des Hautes Estudes en Schiences Sociales di Parigi) si propone di rovesciare questo paradigma affermando che “il futuro del globo (…) non potrà che essere domestico”.

Ed è proprio tramite lo spazio domestico, ad esempio, che i social media sono diventati “una sorta di romanzo collettivo a cielo aperto, in cui tutti sono al tempo stesso autori, personaggi e lettori di come la propria vita si intreccia a quella degli altri”. Una situazione che ha prodotto “una forma aumentata ed estesa di letteratura” dai molteplici sviluppi: non solo commistione tra realtà e finzione in cui quest’ultima crea la prima, ma anche trasformazione dei cellulari e dei computer in una vera e propria “amplificazione della nostra vita psichica”. Risultato, secondo Coccia, che ha condotto all’annullamento della “differenza tra un oggetto e la sua rappresentazione”. In pratica “la psiche è diventata mondo e il mondo (…) un fatto psichico prima di essere materiale”.

 In tale quadro “viviamo nell’urgenza di fare di questo pianeta una vera e propria dimora, o meglio di fare della nostra abitazione un vero pianeta, uno spazio capace di accogliere tutto e tutti”. Il che significa, ed è questo il nucleo centrale del pensiero contenuto nel libro in esame, che “al progetto moderno di globalizzare la città si è sostituito quello di aprire i nostri appartamenti per farli coincidere con la Terra”.

 Se “la casa del passato è stata una macchina della distinzione, nel futuro dovrà diventare la disciplina collettiva della mescolanza: mescolanza delle classi, mescolanza delle identità, mescolanza dei popoli e mescolanza delle culture”. Ipotesi fascinosa che Coccia dispiega tramite un racconto che, partendo dalla sua esperienza di campione dei traslochi (trenta), analizza in modo intrigante i singoli ambienti di cui è in genere composta una casa e alcuni oggetti in essa contenuti.

 Questi ultimi, ad esempio “il letto, i piatti, il tavolo, il computer, il frigorifero rendono reale una dimensione che altrimenti è solo immaginario e astratto… Abitiamo davvero solo le cose”, in quanto “le cose che abitano i nostri appartamenti non sono estensioni, sono magneti, attrattori, sirene che piegano e seducono la realtà spazio domestico con melodie inarrestabili e lo trasformano in un campo di forze costantemente instabili”. In casa “tutti gli oggetti divengono soggetti”, trasformando lo spazio domestico nell’esatto “opposto della schiavitù (…), in cui tutte le cose smettono di essere tali”. Una prospettiva che permette a Coccia di dire che all’interno di ogni casa si sviluppa “un meccanismo che rivela che dentro ogni cosa c’è un io, uno spazio di animismo involontario”. Così come avviene nei musei che l’autore del libro vede come “templi di un inconsapevole culto animista collettivo, che ci consente di adorare le cose e di riconoscere che in porzioni di materia esente di vita biologica vive un’anima simile alla nostra”.

 Molte sono le suggestioni del libro. Nelle riflessioni relative all’intimità che possono avere i gemelli in una casa, Coccia arriva a dire con argomenti probanti che “ogni atto di conoscenza di sé deve passare attraverso la conoscenza dell’altro, e ciò che è in gioco nella conoscenza del mondo è la conoscenza di sé”. Pertanto “riconoscere la gemellanza cosmica significa affermare che in me ci sono duplicati di altri, caratteristiche identiche che non avevo mai sospettato, e che l’incontro con l’altro rivela e resuscita”.

 Attraverso un linguaggio spesso figurato, abbondante di analogie e concettualmente ricco, Coccia parte da piccole cose per approdare a considerazioni generali; e così dalla potenza trasformatrice e trasfiguratrice della scrittura che si pratica spesso dentro casa, arriva ad affermare che “proprio come scrivendo immettiamo elementi nell’esperienza che non possono essere dedotti o previsti dal contesto che ci circonda né dalla nostra attuale esperienza, allo stesso modo abitando immettiamo in un contesto geografico ed ecologico qualcosa che non può essere né prevista né dedotta dall’ambiente. Come in un’arnia si secerne miele, così ogni casa secerne ed erutta un’esperienza diversa”, trasformando in tal modo la casa nel “vero fuori visto dal pianeta”.

 Nell’abitazione, tramite gli armadi e gli abiti che contiene, entra anche l’obiettivo delle avanguardie artistiche “dell’inizio del secolo scorso: quello di far coincidere l’arte con la vita”. Tant’è che “attraverso un abito l’arte esiste ovunque, in ogni momento, sulla nostra pelle” ed “è ciò in cui siamo immersi”. Ed è per questo che “un vestito cambia il paesaggio psichico in noi e fuori di noi: anche in questo è una variazione della casa” E non solo: “un abito trasforma ogni luogo, si trasforma virtualmente in casa” e mostra come “l’io è sempre mondano, vive fuori dal nostro corpo. Non riusciremo mai a dire io senza appoggiarci al mondo”.

 Cucinare e quindi il vivere la cucina, luogo nella casa deputato a questa attività, è per Coccia l’equivalte di un rito iniziatico. “Cucinare non implica solo il sacrificio di piante, funghi o animali, è anche e soprattutto un sacrificio di sé: non saremo mai la stessa persona dopo il pasto, ed è per questo che è necessario mangiare”. E questo perché “tutto è in costante manipolazione reciproca. D’altra parte rapportarsi al mondo non significa mai essere di fronte a esso come di fronte a uno spettacolo. Non esiste contemplazione, o forse la contemplazione è solo uno dei modi di cucinare il mondo”. Da questo punto di vista “tutti i corpi viventi cucinano il mondo, tutti i viventi aggiungono sapori alla terra, non necessariamente digeribili, non necessariamente piacevoli”. Ugualmente “per essere a casa, non basta trovarsi in un luogo fisico e dargli forma: è impossibile essere a casa senza attraversare il corpo degli altri e lasciarsi attraversare dalle cose che ci circondano”.

 Per l’autore di “Filosofia della casa”, la cucina, pur “entrata tardissimo nelle abitazioni borghesi” dovrebbe “diventarne il nuovo paradigma e trasformarle in un laboratorio comune in cui alterare noi stessi e il mondo per trovare, ogni giorno, e ogni giorno in modo diverso, il giusto grado di mescolanza, la possibile felicità comune”. La cucina, infine e in pratica, “è una palestra della mescolanza, in cui le frontiere tra le cose e le persone sono sospese e l’opposizione tra umani e non umani viene capovolta in una fusione festosa”.

Nell’immagine: Emanuele Coccia

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