Per una sinistra che vuole esistere ancora

16 Maggio 2007

SEGOLENE ROYAL

di Tonino Dessì

Dedico a Sègoléne Royal anche e ancor più dopo la sua sconfitta, le mie riflessioni sulla sinistra in Italia. Lo faccio perché il mio désir d’avenir (lo slogan di Sègoléne) è una sinistra italiana che abbia un volto autentico, bello, ottimista, tollerante, sorridente e non corrusco o furbesco, come quelli che da anni conosco nella sua dirigenza, quasi totalitariamente maschile. E perché un volto come quello lo abbiano la Repubblica in cui vivo, nata dalla costituzione antifascista e l’Europa unita, insieme alla quale, nei primi mesi di quest’anno, ho compiuto cinquant’anni. Chissà perché: Sinistra, Repubblica, Costituzione, Europa, sono tutti termini declinati al femminile. Tutti termini di appartenenza e nello stesso tempo di creatività.
Francesco Rutelli ha voluto liquidare col risultato francese non solo il campo del socialismo europeo, ma la sinistra nel suo insieme, in Europa come in Italia, quale forza costitutiva e ancora dinamica del vecchio continente e dei suoi Paesi. Avrebbe preferito un ballottaggio tra Sarkòzy e Bàyrou e anzi, al contrario di Zapatèro, vi ha davvero puntato, dando al candidato centrista, da leader del nostro nascente Pd, il proprio appoggio ufficiale, nel silenzio totale dei Ds, ormai inermi e in disarmo. Proprio per questo non concordo con molte analisi italiane, anche da sinistra, sulla sconfitta dei socialisti francesi. Sarkozy ha vinto le elezioni, ma diciassette e più milioni di elettori hanno riportato, dopo dieci anni, i socialisti al ballottaggio, mentre sono state battute sia le velleità centriste sia le frantumazioni della gauche estrema. Una cosa è dire che dobbiamo allearci col centro democratico, altra è che da esso dobbiamo farci sostituire.
Il punto è che, in Francia come in Italia, una sinistra esiste, resiste e vuole esistere ancora, più ancora che nel sistema politico, nel bisogno profondo delle rispettive società. In questi giorni due temi, connessi all’intima essenza di una società civile, sono intensamente dibattuti sulla stampa italiana: quello della sicurezza e quello dei modi d’essere delle unioni tra coppie di diverso o dello stesso sesso. Law and order, tolleranza zero, sono invocati dal nuovo Pd (e per di più da sindaci della sinistra: Chiamparino, Veltroni, persino Cofferati) contro immigrati e tossicodipendenti, quasi con la stessa declinazione della destra. Una delle ministre cattoliche più amate (fino a ieri) dallo stesso popolo della sinistra, Rosy Bindi, si scaglia contro la legalizzazione delle unioni tra gay in difesa della famiglia quale istituzione fondata esclusivamente sul matrimonio eterossessuale. Poca attenzione sta residuando per lo stupro collettivo (uno dei tanti) e il tentato omicidio che un gruppo di ragazzi italiani hanno perpetrato su una coetanea, anch’essa italiana. Poca attenzione residua sul fatto che la criminalità organizzata italiana controlla come mai è avvenuto prima, quasi interamente, il territorio e la vita di quattro regioni (Calabria, Campania, Puglia, Sicilia), in forme che paiono meno eclatanti rispetto al recente passato (ma guardate cosa ha rivelato Rai3 – Report, sul rapporto tra politiche pubbliche clientelari dell’occupazione e business camorristico dei rifiuti nel napoletano), solo perché ormai la malavita non richiama più l’attenzione nazionale su di sé attentando a personaggi eccellenti delle istituzioni. Di cosa deve avere più paura oggi un Paese europeo che voglia mantenersi aperto e dinamico, se non della compressione forzosa del disagio derivante da vecchie e nuove disuguaglianze, perseguita a costo di limitare i diritti fondamentali sanciti dalla costituzione, sotto la spinta di una pulsione all’intolleranza? Di cosa ha più bisogno un Paese europeo che voglia mantenersi democratico e civile, se non della ritrovata egemonia (se l’espressione gramsciana spaventa troppo, potremmo usare quella di “forza morale e culturale di persuasione”) di una politica capace di governare la complessità sociale mitigando le disuguaglianze – anzitutto quelle derivanti dall’assenza o dalla precarietà del lavoro- e trasformando l’assenza di speranza, che da esse deriva, nelle opportunità offerte dalla valorizzazione delle diversità? E la durezza e la certezza della legge, vanno usate solo con i deboli o sono anzitutto il mezzo fondamentale da applicare per ricondurre alle regole i forti? L’aspirazione all’uguaglianza nella libertà, proprio nell’era dell’economia globalizzata e sempre più immensamente diseguale in cui l’Europa è immersa, resta la corrente profonda storicamente interpretata dal socialismo e tutt’altro che sopita, ancorché non realizzata dalle tragiche esperienze statuali del comunismo postbellico.
In questo sta l’essere di sinistra proposto dal Movimento nato a Roma il 5 maggio, a seguito del processo fondativo del Pd e in disaccordo con esso. Sinistra senza troppi aggettivi, se non quello del richiamo al socialismo europeo, evocato in quanto collante materiale di diverse vicende culturali, sociali, politiche e di governo contemporanee, caratterizzate dalla permanenza nell’alveo della democrazia formale, ma anche dall’impegno per la sua evoluzione in democrazia sostanziale, interna ed internazionale (si leggano i brevi, splendidi, articoli 1, 3, 4, 10, 11, 41, della costituzione della repubblica italiana), più che come simbolica appartenenza ad un’Internazionale o ad un virtuale partito socialista continentale.
L’idea è quella di scongiurare la scomparsa cui le espressioni politiche della sinistra italiana, dopo lo scioglimento di quella maggiore, i Ds, potrebbero ineluttabilmente avviarsi, qualora non venisse risolta la loro perdurante diaspora. Una missione quasi impossibile, considerato che Sdi, Prc., Pdci, Verdi, sono pur sempre partiti-apparato e/o partiti-istituzioni e che per ora il movimento di Mussi, Salvi e (?) Angius sta appena cominciando a metabolizzare il fatto di non essere più una corrente congressuale dei Ds e di dover camminare sulle proprie gambe. Il tema della “forma” che una soggettività politica nuova ed unita dovrebbe assumere, per superare la diaspora, dovrebbe essere, a mio avviso, tra quelli prioritari da inserire nell’indice dei contributi che il nuovo movimento potrebbe dare alla sinistra italiana, al Paese, alla sua società, alle istituzioni. Confederazione, Federazione, Unità d’azione: riemergono termini, questi sì, obsoleti e insoddisfacenti, tipici di chi non vuol mettere in discussione nè in gioco sé stesso. Le alternative Partito/ Movimento /Movimento di Movimenti: peggio che mai. Occorre capire piuttosto come ricostruire qualcosa che è entrato in crisi da molto tempo, ossia il rapporto tra cittadini e organizzazioni politiche e quello tra programma fondamentale (non occorre cercarne di nuovi: in fondo basta la costituzione e dovremo anzi difenderla con i denti dal relativismo a-costituzionale del Pd, che legittima ex post il revisionismo anticostituzionale di Berlusconi, Fini e Bossi) e azione delle rappresentanze, sia quando si è all’opposizione, sia quando si è al governo. Come realizzare l’obiettivo programmatico secondo cui “tutti i cittadini possono associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (sempre la cara, giovane, ancorchè sessantenne Carta, articolo 49), superando, anzi sconfiggendo in breccia le espropriazioni antidemocratiche da parte di apparati, la gelosa autoconservazione di gerontocrazie avide, le resistenze maschili alla democrazia di genere, i tradimenti dell’etica consistenti nel predicare determinati valori e praticarne esattamente di opposti? Non si tratta di opera da poco. Ma per meno non vale, diciamolo fin d’ora, neppure la pena di impegnarsi. E in Sardegna? Mah: anche qui, de te fabula narratur, cara sinistra sarda, il cui autonomismo si è concretato in elemento aggiuntivo di autoconservazione, spingendo il tuo popolo all’evocazione di un principe che sconfiggesse gli oligarchi. Quello stesso popolo, ora, assiste passivo al fatto che principe ed oligarchi si stanno asserragliando (pur continuando a ringhiarsi a vicenda) nello stesso fortino, i cui merli e ponti levatoi difficilmente salveranno loro e noi dalle conseguenze sociali e politiche di un’esperienza di governo che conclusivamente dovesse avere un bilancio deludente. Né, proprio ora, in un momento che richiederebbe riflessioni più ampie, rivolte alla società sarda, al suo presente e al suo futuro, da considerare unitarie solo a condizione che siano innovatrici, può appassionare una nuova scissione, per di più compiuta in sede meramente istituzionale, di consiglieri regionali di Pdci ed ex Prc, più l’ex segretario di quella che considero la peggiore performance politica dei Ds sardi dalla loro fondazione: persone che appaiono prevalentemente mosse dalla ricerca di prossimi, autoconservativi posizionamenti elettorali. Anche nell’Isola ci sarebbe già oggi, davvero, bisogno d’altro. Vedremo.

1 Commento a “Per una sinistra che vuole esistere ancora”

  1. Marcello Madau scrive:

    E’ proprio vero, c’è un bisogno di idee di sinistra,
    nel paese e in Europa, e questa crisi è pure lo specchio
    delle nostre debolezze analitiche, del prevalere – di fronte a una severa difficoltà, spesso incapacità, nella lettura dei nuovi contesti – delle idee portanti della conservazione: in genere più “facili” da usare.
    C’è un grande bisogno di inchiesta e di organizzazione dei bisogni,
    di recuperare il senso del bene comune e delle appartenenze, di capire vecchie e nuove dimensioni del lavoro.
    Dobbiamo discuterne ora, e molto a fondo. Intanto, preoccupa
    il presenzialismo di una vecchia classe politica di sinistra che anche in Sardegna è gravemente responsabile della crisi della rappresentanza dei partiti della sinistra.
    Non so, e lo discuteremo certo, se è meglio partito o è meglio movimento (dubito che sia proprio questa l’alternativa, per lo meno così proposta), ma vorrei che ci sforzassimo davvero a leggere la crisi, e che i vecchi compagni dirigenti, così veloci a proporre elementi, magari necessari, di aggregazione, lo siano altrettanto nel fare un passo indietro rispetto alla partecipazione in eventuali nuovi organismi direttivi, o all’aspettativa di nuovi lanci elettorali.
    Discutere della rappresentanza sarà davvero importante, per capire i
    nodi dello scontro di classe, i nuovi scenari della forza lavoro, il senso della delega.

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