Ravensbruck, il lager delle donne

1 Febbraio 2017
Gianfranca Fois

Himmler, il potente capo delle SS poi capo della polizia e della Gestapo, prediligeva per i campi di concentramento luoghi nascosti, incontaminati, immersi nella natura. Per questo motivo il campo destinato alle donne scelse di farlo costruire presso le rive del lago di Furstenberg, un centinaio di chilometri a nord di Berlino, tra i boschi.

Ravensbruck, il campo delle donne, aperse i suoi cancelli nel maggio del 1939 per richiuderli sei anni dopo all’arrivo dei soldati dell’Armata Rossa. Sin dall’inizio ospitò soprattutto donne tedesche oppositrici del nazismo, comuniste, partigiane, testimoni di Geova, intellettuali. Ad esse si aggiunsero anche donne considerate inferiori, cioè prostitute, lesbiche, zingare, indigenti. Queste, all’interno del programma “Azione contro gli indolenti” che si prefiggeva l’eliminazione delle classi indesiderate, venivano arrestate e mandate appunto nei campi di concentramento. Alla fine della guerra queste donne considerate asociali non ricevettero alcun aiuto da parte delle associazioni tedesche nate per aiutare i sopravvissuti ai campi, sia per la vergogna di dichiarare il motivo della loro detenzione sia per la mancanza di interesse nei loro confronti da parte delle stesse associazioni o degli Alleati.

Per tantissimo tempo quasi niente si è saputo su Ravensbruck. Anche qui i documenti furono distrutti dai nazisti in fuga ma sicuramente il fatto che avesse ospitato solo donne e relativamente poco numerose donne ebree (10%) contribuì a lasciare in ombra il campo e le sue atrocità. Solo di recente la sua storia è stata ricostruita in modo meticoloso da Sarah Helm, una studiosa inglese che si è imbattuta quasi per caso in Ravensbruck mentre compiva una ricerca storica. Il frutto delle ricerche e delle testimonianze dirette di sopravvissute o dei loro parenti è un libro bello e terribile: Il cielo sopra l’inferno.

Hitler e i nazionalsocialisti avevano una così bassa stima delle donne che anche le stesse carceriere erano agli ordini degli uomini, non avevano gradi specifici, erano ausiliarie delle SS. Le donne comunque, secondo i nazisti, erano destinate a occuparsi del marito e dei figli, della casa. Sono idee che erano presenti, e ancora talvolta lo sono, nel resto d’Europa, ma in Germania divennero parte integrante del programma del partito di Hitler e quindi del suo governo.  Venne così limitata al solo 10% del totale degli iscritti l’ammissione delle donne all’Università e fu negato l’accesso a diverse professioni, soprattutto a ruoli dirigenziali.

Precedentemente, durante la repubblica di Weimar, molte donne si erano emancipate e avevano svolto ruoli considerati allora tipicamente maschili (giornaliste, sindacaliste, mediche, insegnanti, sociologhe), perciò furono accusate dai nazisti di aver corrotto la morale del popolo tedesco. La vita delle donne nel campo era in costante pericolo per le privazioni, gli stenti, le malattie, gli aborti per le donne incinte, le violenze fisiche e psicologiche, i terribili esperimenti “medici” come cavie umane, i massacranti turni di lavoro sia nel campo e nei dintorni, sia nei laboratori delle più importanti società dell’industria bellica e tessile (Texled, Siemens, Heinkel, Daimler-Benz, Agfa) come lavoratrici schiave con turni di 12 ore e quote di produzione elevatissime. Furono circa 130.000 le donne che passarono per questo campo, ne morirono circa la metà.

Tutto ciò non impedì a molte donne di coltivare il canto e la musica, la filosofia, la letteratura, la storia. Le une insegnavano alle altre, le più grandi alle più giovani. Riuscirono inoltre a compiere azioni di sabotaggio, ad esempio danneggiando le uniformi, soprattutto invernali, dei soldati tedeschi che dovevano cucire. Non furono rari i casi in cui manifestarono con decisione contro alcune decisioni del comandante del campo. Alcune giovani polacche con vari stratagemmi riuscirono a mandare messaggi e richieste di aiuto ai parenti. Ma queste denunce non sortirono quasi alcun effetto.

Nel libro di Sarah Helm numerosissime sono le donne raccontate, nel bene e nel male, che rimangono indelebili nella mente e nel cuore di chi legge. Voglio nominarne almeno due: Olga Benario e Yevgenia Klemm. Olga Benario, una giovane Ebrea tedesca che aveva aderito al partito comunista, fu non solo una donna colta e brillante ma anche una coraggiosa combattente. Al comando di alcuni giovani e armata di pistola riuscì a liberare il suo compagno arrestato in un tribunale di Berlino. Dopo varie vicende fu consegnata dal Brasile, dove si era sposata e dove aveva partecipato col marito brasiliano a un tentativo di insurrezione, alle SS tedesche finendo in carcere a Berlino. Qui dà alla luce una bambina, poi viene internata a Ravensbruck e in seguito destinata alla camera a gas.

Yevgenia Klemm, insegnante russa combattente dell’Armata rossa, riuscì a sostenere psicologicamente le sue compagne nel campo incoraggiandole a resistere, a organizzare sabotaggi, a non mostrare debolezza di fronte alle SS, a sperare nel futuro, consigliandole nei momenti più bui, riuscendo così a tenerle unite e, almeno in parte, a farle sopravvivere. Nel frattempo il Comitato Internazionale della Croce Rossa che avrebbe dovuto vigilare l’applicazione delle convenzioni di Ginevra non rivelò al mondo quanto avveniva in Germania. Anche il suo presidente, il famoso storico Carl Burckhardt, si rifiutò di denunciare le violenze nei lager, anzi in varie lettere mostrò la sua ammirazione per Hitler.

Questa politica non interventista fu mantenuta anche di fronte all’eliminazione di Ebrei, Rom, asociali e omosessuali. Tutto fu giustificato col fatto che la Croce rossa doveva limitare la propria responsabilità ai prigionieri di guerra in uniforme. Solo alla fine, grazie all’attività di alcuni suoi esponenti, a Ravensbruck fu possibile liberare quante erano sopravvissute, ma ormai la guerra stava terminando.

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