Reddito di cittadinanza e democrazia

1 Marzo 2014
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Gianfranco Sabattini

Una seconda forma di finanziamento del reddito di cittadinanza è stata formulata da James Meade, ma perfezionata dal suo allievo Edwin Morley-Fletcher; questi ha proposto un modello di finanziamento del reddito di cittadinanza che consente la transizione dall’attuale sistema di welfare State, a un sistema di sicurezza sociale, realizzato attraverso l’istituzione di un “fondo capitale di cittadinanza”, da cui derivare le risorse per finanziare il reddito di cittadina da erogare a tutti; ciò al fine di evitare il problema della discrezionalità politica nel decidere quale parte del reddito nazionale può essere “drenato” dallo Stato per finalità ridistributive.
Il principio della sovranità popolare, che dovrebbe rappresentare il contrappeso alla arbitrarietà degli automatismi politici che presiedono alla distribuzione fiscale del costo della sicurezza sociale, è stato distorto dalla logica di funzionamento del welfare State da molti punti di vista (mancata estensione della sicurezza sociale a tutti indistintamente; insorgenza di continue emergenze come conseguenza della dinamica del sistema economico, ecc.). L’esperienza in molti paesi ha evidenziato che quando la gestione del welfare State è lasciato all’azione discrezionale della politica, in assenza di un qualche automatismo autoregolatore, è resa possibile una tale manipolazione dei flussi di reddito da creare uno stock di capitale sociale negativo (somma dei disavanzi correnti del settore pubblico) a spese anche dei cittadini che ancora non hanno raggiunto l’età per votare o che, addirittura, non sono ancora nati.
Questi non sono che esempi di immediata percezione del perché si impone la necessità di una riforma radicale del welfare esistente; ma poche, sinora, in Italia, sono state le iniziative promosse in tal senso, per cui uno dei meriti di James Meade è da individuarsi nell’aver contribuito a dimostrare la possibilità di istituzionalizzare l’erogazione di un “RdC” finanziato con tutte le risorse impegnate nel funzionamento del sistema di sicurezza sociale vigente, oppure mediante la distribuzione di un dividendo sociale finanziato con le rimunerazioni derivanti dalla vendita sul mercato dei servizi di tutti i fattori produttivi di proprietà collettiva, gestiti dallo Stato, mediante la costituzione di un “fondo capitale nazionale”, per conto e nell’interesse di tutti i cittadini.
In questo secondi caso, nella proposta di Morley-Fletcher, lo stock di capitale costituivo del fondo nazionale si suppone sia finanziato dai surplus della bilancia internazionale dei pagamenti dei singoli paesi; nulla impedisce, però, che il finanziamento sia realizzato dai proventi rivenienti dalla cessione di determinati beni, come ad esempio avviene in Norvegia, dove la costituzione del fondo capitale nazionale è alimentato dai proventi garantiti dalla vendita di risorse petrolifere. In quest’ultimo caso, a ciascun cittadino è assegnato “dalla culla alla bara” uno stock minimo nominale di capitale, sufficiente a granirgli un “dividendo” pari al reddito di cittadinanza che gli viene erogato; tutto ciò è da considerarsi realizzabile in una prospettiva temporale sufficiente a consentire la costituzione del fondo capitale nazionale necessario per un’organizzazione del sistema sociale in cui il bisogno di ricorrere agli automatismi fiscali per la ridistribuzione del reddito, come avviene in presenza dell’attuale welfare State, si estingua completamente. Naturalmente, al “punto omega” di ciascun soggetto, il fondo capitale che gli è stato assegnato alla nascita non passa ai suoi eredi, ma viene avocato dallo Stato per essere assegnato ad un nuovo soggetto o, nel caso di una dinamica demografica stabile, per essere ridistribuito a vantaggio di tutti i superstiti od ancora per essere utilizzato per altre finalità sociali.
In paesi come l’Italia, dove mancano le risorse petrolifere e dove è problematico pensare di trovare risorse alternative per introdurre il reddito di cittadinanza attraverso uno dei due modelli suggerii da Meade, com’è possibile reperire i mezzi necessari allo scopo? Al riguardo, è plausibile pensare che la “via” del finanziamento del “RdC” tramite la riforma ab imis dell’attuale sistema di sicurezza sociale sia destinata ad essere percepita come impercorribile in assoluto, dati i tempi che sarebbero richiesi e le criticità sociali inevitabili che sarebbe necessario affrontare durante la transizione dall’attuale sistema di sicurezza sociale al nuovo, imperniato sull’introduzione del “RdC”. Più facile sembra la “via” della costituzione di un “fondo capitale nazionale” dal quale derivare i “fondi capitale figurativi” da assegnare sino alla concorrenza delle disponibilità del fondo nazionale ai singoli cittadini. In questo caso, come reperire le risorse necessarie?
Giocando di fantasia, ma non troppo!, si può assumere, con riferimento all’Italia, di inserire il problema nella prospettiva delle finalità del cosiddetto “movimento benecomunista”, ovvero di quel movimento che si prefigge di riordinare i diritti di proprietà all’interno dei moderni sistemi industriali, senza “tagliare la gola” ai capitalisti, senza “mangiare i bambini” e senza trasformare “le chiese in stalle”. Nella fase attuale, a causa della crisi in cui versa la società italiana, il mondo politico sembra avere le armi spuntate per risolvere i problemi posti dalla crisi stessa; tale stato di cose sembra perciò suggerire l’urgenza di un riordino dell’istituto della proprietà in tutte le sue declinazioni. L’idea di regolare l’istituto della proprietà in funzione dello stato presente del sistema sociale ed economico nazionale può essere derivata dalla teoria economica dei diritti di proprietà, il cui sviluppo negli anni Sessanta del secolo scorso si deve agli economisti Armen Alchian e Harold Demsetz; secondo questa teoria, l’esistenza dei diritti di proprietà e la disponibilità di una loro perfetta ed oggettiva definizione costituiscono i fattori che consentono di massimizzare la convenienza della persone a “vivere insieme”, per svolgere tutta l’attività utile al perseguimento dei loro progetti di vita, attraverso il meccanismo di produzione, di scambio o di fruizione diretta dei beni acquisiti.
In questa prospettiva, l’elemento che giustifica la proprietà non è tanto il valore del bene in sé e la possibilità di una sua illimitata ed arbitraria utilizzazione, quanto l’insieme delle regole che ne sottendono la sua fruizione; il bene, perciò, è svuotato del suo mero significato di oggetto, per dare rilievo alle modalità con cui i costi ed i benefici connessi alle decisioni d’uso sono suddivisi. In questo contesto, la proprietà privata è distinta da quella comune, proprio per il diverso grado di disponibilità a titolo individuale dei beni che costituiscono il contenuto sia dell’una forma di proprietà che dell’altra.
Il riordino dei diritti di proprietà può trovare la sua logica giustificazione considerando che da sempre il lavoro è stato posto a loro fondamento, inteso come condizione perché i loro titolari possano godere e disporre in modo pieno ed esclusivo, entro certi limiti, dei beni acquisiti col lavoro e le capacità dei singoli individui. Tale condizione è sempre stata ricondotta alla presunta esistenza di un ordine naturale e poiché, fin dall’epoca della rivoluzione agricola (8-12 mila anni or sono), nessun individuo ha mai lavorato in una condizione di isolamento, così da produrre beni utili con il suo solo lavoro indipendente, ma ha potuto produrli nella misura desiderata solo all’interno della comunità attraverso la cooperazione dei soggetti che ne facevano parte, questa “dimensione sociale” della produzione è stata motivo sufficiente a giustificare l’introduzione dei limiti al suo godimento.
L’affievolimento della giustificazione della proprietà secondo il presunto ordine naturale è stato determinato dalla crescente rilevanza che la giustificazione ha assunto nell’ordine civile, verificatasi soprattutto con l’introduzione del denaro nell’ultima fase dell’età medievale. All’inizio dell’età moderna, infatti, la giustificazione della proprietà nell’ordine civile è stata motivo di confronto tra filosofi, giuristi e pensatori sociali; il confronto è valso a consolidare la distinzione tra la proprietà dei beni prodotti col lavoro da quella delle risorse naturali la cui formazione non aveva richiesto alcuna erogazione di lavoro; ragione sufficiente quest’ultima a giustificare il possibile uso da parte di ciascuno delle risorse naturali in misura sufficiente a consentirgli di procurarsi il necessario di cui vivere.
Secondo la distinzione accennata, perciò, tutti dovevano poter vivere e nessuno doveva avere il diritto di estendere il proprio dominio su ciò di cui gli uomini potevano disporre senza aver lavorato. L’avvento della rivoluzione industriale ha fatto strame di questa logica distinzione, sino al punto di considerare opportuna una estensione generalizzata del diritto di proprietà privata su quasi tutti i beni disponibili, incluse le risorse naturali. Dalla fine del Settecento ad oggi, il processo di accaparramento privato delle risorse naturali ha avuto una forte accelerazione, che ha portato alla trasformazione della loro maggior parte in beni-capitale di proprietà privata per il sostegno di un processo di crescita continua della produzione, indipendentemente da ogni considerazione dell’impatto negativo che il tipo di regime proprietario prevalente aveva sulle condizioni di vita delle popolazioni.
Sono gli stravolgimenti verificatisi nell’età moderna e soprattutto quelli imputabili alla rivoluzione industriale, i cui effetti sono soprattutto inaspriti dalle ricorrenti crisi sociali ed economiche, che giustificano l’impegno di quanti sono interessati ora nel nostro paese a meglio definire i diritti di proprietà; l’impegno però deve essere orientato con particolare riferimento a tutto ciò che è esprimibile in termini di risorse “regalate dal cielo”. E’ solo su questa base che si potrà costruire una teoria dei diritti di proprietà che ponga rimedio a tutte le conseguenze negative originate da una loro “cattiva definizione”; è ancora su questa base che si potranno meglio definire le modalità con cui le popolazioni potranno relazionarsi ai beni dei quali dispongono, senza trascurare, come ricorrentemente avviene, le modalità di una loro razionale gestione; ed è solo su questa base che diviene plausibile pensare alla costituzione di un patrimonio collettivo da trasformare in fondo capitale da utilizzare per finanziare il “RdC” con i proventi derivanti dalla vendita dei suoi servizi.
E’ fantasia questo progetto? No, è solo ritardo sul piano della sua realizzabilità, causato dal prevalere di rapporti economico-sociali ormai divenuti vetusti, che ognuno può facilmente identificare.

1 Commento a “Reddito di cittadinanza e democrazia”

  1. Gavino Dettori scrive:

    In una società di disuguali,dove la stragrande maggioranza dei cittadini sono esclusi,dalla possibilità di produrre reddito,per rendersi autosufficienti, dal punto di vista alimentare, nasce il problema del necessario sostentamento degli stessi,ai quali devono essere garantiti anche gli altri diritti.Di questo parliamo,nelle società evolute democraticamente,che dovranno evolvere in positivo per garantire a tutti il minimo di sussistenza,e i diritti di partecipazione alla vita sociale…
    Molte remore,nascono in coloro che appartengono alle classi garantite e benestanti, in merito a questo nuovo istituto.Detto in modo elegante si potrebbe sintetizzare così: chi non lavora e percepisce un reddito “sociale”, diciamo così, si annichilisce, si abbruttisce ..diventa una zavorra sociale..e no è vero che chi vuol lavorare non trova lavoro…
    Ora,per parlare di sviluppo,e benessere sociale,.. mi chiedo se questo fondo “zavorra” di FONDO CAPITALE DI CITTADINANZA potrebbe essere investito per produrre lavoro,e nel contempo operare ad una distribuzione del monte ore lavorative .Ho paura che sia veramente appropriato il vecchio slogan: LAVORARE MENO, LAVORARE TUTTI. Credo che sia più semplice intervenire in questo senso piuttosto che pensare ad una improbabile modifica degli assetti delle proprietà,..sebbene il bene TERRA NON DERIVA DAL LAVORO UMANO, quindi potrebbe essere considerato “BENE COMUNE”.
    Ma pensiamo anche al risparmio in spese sanitarie e nella carcerazione dei poveri….

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