Ricostruiamo una sinistra credibile

16 Maggio 2008

Giovanni Meloni

Il risultato elettorale, disastroso tanto per il PD quanto per la Sinistra Arcobaleno, non sembra suscitare una riflessione adeguata intorno alle sue cause, prossime e remote, da parte delle forze politiche protagoniste della disfatta. Il PD si dichiara soddisfatto dei risultati ottenuti. Affermazione sorprendente, se si pensa al fatto che i voti ottenuti sono circa 100.000 in più di quelli dell’Ulivo nel 2006: avendo incamerato buona parte dei voti radicali, il PD non solo non cresce, ma perde; se poi si considera che, come mostra lo studio dei flussi, più un terzo di tutti i voti che nel 2006 erano andati alle forze della Sinistra Arcobaleno si è riversato sul PD, bisogna concludere che il partito di Veltroni ha ceduto verso il centro e la destra ben più di un milione di voti, così fallendo nel punto cruciale del suo disegno strategico, la conquista del centro, dove, assicurano gli esperti americani, si vincono le elezioni. Tutto ciò sembra non indurre alcun ripensamento critico, che certamente non può essere rappresentato dai borbottii degli amici di D’Alema. Eppure strategia e tattica, tutto è franato. L’obiettivo di Veltroni non era certo quello di riportare una vittoria alle elezioni del 13 aprile; ogni cosa, dai sondaggi al buon senso, la indicava come impossibile, data la impopolarità del governo e il suo non imprevedibile naufragio. Veltroni ha tentato di praticare un disegno che si può definire “del secondo colpo” e che, più o meno, suonerebbe così: non si possono vincere ora le elezioni, ma è realizzabile una sorta di pareggio (al Senato), che renderà difficile la vita al prevedibile governo del maggiore esponente dello schieramento avverso; ciò costringerà il centro destra (CD) ad un accordo per una nuova legge elettorale e per alcune modifiche costituzionali, dopodichè nuove elezioni, rispetto alle quali il CD si presenterà indebolito, anche in forza di una opposizione che avrà gioco facile per le difficoltà di una maggioranza non onnipotente. Diminuito il numero dei parlamentari e modificata la legge elettorale in senso favorevole alle forze più grandi (con un doppio turno alla francese, per esempio), il problema delle alleanze sarà meno drammatico e le prospettive di vittoria potrebbero diventare concrete, anche perché, trascorsi ancora uno o due anni, la leadership di Berlusconi risulterà meno indiscutibile. L’esito elettorale, garantendo al CD la possibilità di un governo di legislatura, ha spazzato via ogni ipotesi di tal genere, lasciando il PD privo di un disegno politico, con una prospettiva di opposizione da una condizione di maggiore subalternità che quel partito, non preparato a mangiare pane e cicoria per altri cinque anni, per dirla con Rutelli, avrà difficoltà a sopportare. Ciò costituisce un rilevante pericolo per il Paese, giacché una opposizione non orientata a sostenere una alternativa netta e riconoscibile alla politica della destra corre il rischio di trasformare una sconfitta elettorale in una mutazione genetica del sistema politico, consentendo che si radichi una cultura fortemente conservatrice, quando non reazionaria; si pensi ad alcune posizioni della Lega o alla promessa di Dell’Utri di riscrivere la storia, al fine manifesto di cancellare il carattere antifascista della Repubblica. Il fallimento della strategia veltroniana richiederebbe, dunque, una revisione profonda della politica del PD, della sua collocazione (a sinistra e non al centro), delle alleanze, del tipo di riforme da realizzare, a partire da quelle istituzionali e, soprattutto, del suo rapporto con le masse popolari, piuttosto che con gli imprenditori bresciani o veneti, che non sembra abbiano arginato la sconfitta al Nord.. Tutto ciò, naturalmente, finirebbe per mettere in discussione il gruppo dirigente, a partire dallo stesso segretario, e produrrebbe lacerazioni fra le diverse anime di un partito ancora non ben assestato. La reazione alla sconfitta non sembra perciò andare in tale direzione e, anzi, pare si voglia mettere la sordina al dibattito interno e approfondire il processo di omologazione dei due schieramenti, come dimostra il varo di un inutile e scialbo governo ombra, presentato come svolta nel modo di fare opposizione. In definitiva, con la primavera del 2008 si è giunti agli esiti finali della svolta, così si chiamava allora, realizzata con il congresso di liquidazione del PCI nel 1991. Si poneva in quel tempo, di fronte all’implosione del “socialismo reale”, il problema della realizzazione di una sinistra moderna e di governo che, per dirla in breve, superasse la conventio ad excludendum operante contro i comunisti. Oggi si può dire che la conseguenza ultima della scelta operata dalla maggioranza di quel congresso è che il Partito, che allora si chiamava democratico e di sinistra, dopo varie mutazioni che hanno espunto la sinistra perfino dal nome, e due esperienze di governo, entrambe sanzionate negativamente dagli elettori, si trova distante dal governo quanto mai è stato in passato, fortemente indebolito sul piano elettorale e su quello della credibilità politica, ad affievolire la quale concorre anche la pesante sconfitta alle elezioni romane. Ma il risultato elettorale contiene anche l’esito, non meno evidente, né meno importante di un altro fenomeno. È simmetrico al primo, giacché la cancellazione clamorosa e inedita della sinistra dal Parlamento, costituisce il punto di approdo (infausto) dell’itinerario politico iniziato, sempre nel ’91, da quanti, giustamente, avevano rifiutato non tanto la svolta, semmai tardiva, quanto la liquidazione dei valori che stavano alla base della esperienza del comunismo italiano e avevano previsto, proprio in ragione di tale abbandono, quanto esiziali sarebbero potuti essere i risultati di quella scelta per le sinistre e per la democrazia italiana. L’impegno preso allora fu ambizioso: rifondare il comunismo, ossia, approssimativamente, attrezzarsi teoricamente e praticamente al fine di mantenere aperta, nonostante la sconfitta storica, la possibilità di superare sfruttamento e ineguaglianza di un mondo capitalista in vorticosa trasformazione ma, soprattutto, trionfante. Le possibilità di rispettare questo impegno non erano, per la verità, numerose, ma posto che ve ne fosse una, essa non poteva che essere connessa a una forte partecipazione dei cittadini alle scelte che li riguardano o, se si vuole essere più precisi, allo sviluppo di una lotta politica contro il soffocamento della democrazia, in un clima generale in cui il sistema politico andava in crisi, in primo luogo per quanto attiene alle sue articolazioni democratiche. Tale clima non ha risparmiato la sinistra. Leaderismo, autoreferenzialità, anguste logiche da piccolo gruppo hanno impedito perfino il tentativo di ricostruire un partito di massa della sinistra, per cui tra inadeguatezze, errori e divisioni, che hanno provocato, a più riprese, dei veri e propri disastri politici, si è giunti fino alla formazione, in stato di necessità, della Sinistra Arcobaleno, che è stata percepita, non a torto, come un inconsistente cartello elettorale, messo insieme tardi e di mala voglia, essenzialmente al fine di fornire un paracadute ai gruppi dirigenti, come dimostra la composizione grottescamente cencelliana delle liste elettorali. Ma il paracadute non si è aperto e dai generali in rotta, che hanno deciso di gestire ciascuno per proprio conto gli esiti della sconfitta, viene una volta di più la spinta ad ulteriori frammentazioni, in contrapposizione al popolo della sinistra che chiede unità, anche con il proprio comportamento elettorale punitivo. Della sinistra unita le masse popolari italiane hanno bisogno, perciò occorre ripartire facendo tesoro dell’esperienza passata, la quale racconta che intenti e metodi devono essere profondamente rinnovati. Naturalmente non sono in possesso di ricette miracolose (che a quanto pare non abbondano), né è opportuno tentare di abbozzare formule affrettate, ma almeno una questione mi pare possa essere sollevata. La ripresa della sinistra deve ricominciare, mi sembra, da una forte iniziativa tendente a ripercorrere quel cammino di costruzione progressiva della democrazia partecipativa, che ha costituito la caratteristica distintiva della sinistra italiana. I cittadini, che pure vivono una stagione di grande diffidenza nei confronti della politica, manifestano in modo inequivocabile una volontà di partecipazione, come dimostra la percentuale dei votanti, ancora assai alta. Ad essi devono essere restituiti, secondo il dettato costituzionale, i luoghi in cui esplicare la propria attività politica, così da poter concorrere alla formazione delle decisioni che li riguardano. Questi luoghi sono i partiti e chi intenda che la sinistra può riprendere vigore solo nel mezzo dallo sviluppo della democrazia deve pensare a una formazione politica profondamente riformata da regole democratiche assai precise. Può sembrare un aspetto marginale, o perfino un errore, rispetto a chi predica, non disinteressatamente, che i partiti hanno fatto il loro tempo, ma se si è convinti, come io sono, che non vi è sinistra senza il recupero di una attività politica organizzata e di massa, che si opponga alla telecrazia a cui anche le sinistre hanno mostrato di credere, allora la (ri)costruzione di un partito legato alle masse popolari e da esse formato non è un nostalgico ricordo del passato, ma uno strumento adeguato all’esigenza di preparare un futuro meno oscuro di quello che il risultato elettorale faccia intravedere nel nostro orizzonte.

3 Commenti a “Ricostruiamo una sinistra credibile”

  1. Giuseppe Fois scrive:

    Il Pd ha oggi delle responsabilità epocali nel processo di ricostruzione di una sinistra credibile in Italia. Fra le tante, per quanto di stringente attualità, sopperire alla tristissima assenza dell’Arcobaleno in Parlamento, alla quale, per la verità, ha contribuito in misura determinante. L’idea di partenza, ribadita lungo tutta la campagna elettorale, era quella di intercettare voti moderati attraverso un disegno politico a metà strada tra un liberismo meno scellerato e un riformismo più concreto. Una scelta coraggiosa, se vogliamo, ancorché mal orchestrata, se si condivide l’idea che non è stato sufficiente corteggiare il solo elettorato di centro per limitare i danni. Certo, può avere un senso sostenere che le competizioni elettorali sono centripete, ma come non riconoscere l’enorme peso che i voti dispersi a sinistra hanno avuto nelle percentuali di successo del centro destra? E qui, si apre tutto un altro capitolo, che pur non tralasciando di osservare l’assoluta necessità di un Pd che guardi tanto al centro quanto a sinistra, nondimeno si deve interrogare sulle imminenti sfide che attendono l’Arcobaleno. Sembra assurdo che molti operai abbiano votato Lega alle scorse politiche, ma tant’è. La ricostruzione di una sinistra credibile, pertanto, non può prescindere da un progetto politico nuovo, moderno, capace di far fronte alle incombenti sfide sociali che il presente già prospetta.

  2. Marcello Madau scrive:

    Caro Giovanni, proprio la costruzione di una forza politica che abbia rapporto con le masse popolari (di oggi) mi sembra l’unica costruzione possibile, almeno per una tradizione basata sulla cultura della democrazia partecipata. Questa la difficoltà, anche in Sardegna, dove tale cultura sembra assente e smarrita.
    Si sono affermate in questi decenni una prassi ed una politica, sia al governo che all’opposizione, che si muovono autocraticamente, in assenza di delega reale permanentemente verificata e confermata innanzitutto dai soggetti del lavoro. E se è difficile essere convinti del rinnovarsi per la guida della Regione di una candidatura politica non poco in conflitto con la cultura della ‘democrazia partecipata’ , è ancora più difficile intravvedere nell’attuale area politica socialista, autonomista e sardista un’alternativa credibile. Apprezzo l’analisi di Andrea, da non confondere con chi in un altro commento parla di tirannide, e pensa ad alleanze davvero poco lusinghiere con i resti di un ceto politico senza alcun rapporto con le classi subalterne e che ha distrutto il concetto stesso dell’autonomia, persino alleandosi (col paravento del diritto di tribuna) con movimenti xenofobi oggi al governo.
    La democrazia partecipata, il rapporto – per quanto profondamente da rinnovarsi – con il mondo del lavoro e la reale espressione politica di ciò sono grandi e difficili compiti sui quali procedere per una seria ricostruzione della sinistra, senza sconti a nessuno.

  3. Giovanni Urracci scrive:

    Pensioni, calcoli, sentenze. ZURIGO

    Si tra gli italiani residenti in Svizzera, sia tra gli ex emigrati e, ancor di piu’, tra gli ex-lavoratori italiani frontalieri, ma non solo, vi sono decine di migliaia di pensionati che, grazie alla Convenzione italo-svizzera di sicurezza sociale in vigore prima degli accordi bilaterali Svizzera-Unione Europea, avevano ottenuto la pensione di anzianita’ italiana (35 anni di assicurazione) con il trasferimento della contribuzione svizzera all’INPS. Una pensione che all’epoca era molto appetibile tra i lavoratori italiani in Svizzera non tanto per il suo ammontare quanto per gli anni di anticipo con i quali essa consentiva di andare in pensione rispetto a quella dell’AVS svizzera. Poi e’ accaduto che nel mese di marzo 2004 la Corte di Cassazione italiana, con una sua sentenza, dette ragione ad un ex-emigrato di Bergamo che aveva contestato all’INPS il criterio con il quale l’Istituto previdenziale italiano aveva utilizzato la sua contribuzione elvetica per il calcolo della sua pensione di anzianita’. In estrema sintesi la sentenza citata obbligava l’INPS a ricalcolare la pensione di questo ex-emigrato in Svizzera sulla base della retribuzione da lui effettivamente percepita in Svizzera negli ultimi cinque anni di lavoro precedenti il pensionamento, diversamente da quanto veniva fatto dall’INPS che, invece, riparametrava tale retribuzione tenendo conto della diversa aliquota contributiva elvetica ed italiana. Giovanni Urracci sardi (CH)

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