Rieducare, retribuire e risarcire

6 Maggio 2021

[Guido Viale]

L’arresto di alcuni latitanti italiani rifugiati in Francia da decenni e protetti dal “lodo Mitterrand” non è che un’applicazione della legge, attribuendo però alla pena una finalità “retributiva” del tutto estranea alla Costituzione, che le attribuisce solo finalità rieducative (quelle che, come ha scritto Adriano Sofri, la permanenza in Francia aveva ampiamente realizzato).

Che la pena debba avere anche finalità retributive, cioè afflittive, era stato sostenuto a suo tempo dal presidente della Repubblica Scalfaro per giustificare il diniego della grazia a Sofri: anche perché – aveva detto – si sarebbe trattato di un “quarto grado di giudizio”. In realtà Sofri, Bompressi e Pietrostefani di gradi di giudizio ne avevano già attraversati 8 (anzi, 10) e Marino 12. Ma con le loro pressioni Draghi e Cartabia hanno aggiunto il loro misero tassello alla versione che da decenni ha fatto dei ‘70 gli “Anni di piombo”, dominati dal “terrorismo rosso”: cancellando sotto questa dizione sia la “Strategia della tensione” e le sue stragi, sia le lotte e le conquiste di studenti, operai e popolo contro cui quella strategia era diretta. E anche il fatto che una guerra, ancorché “non ortodossa”, era stata dichiarata fin dal 1965, in un convegno dell’Istituto Pollio, dagli uomini dei “Servizi” che poi l’avrebbero gestita. Ma lo Stato italiano ha condotto quella guerra contro dei movimenti di massa, colpendo a casaccio nel mucchio con una sequela di stragi, mentre le formazioni armate nate ai margini di quei movimenti pensavano di contrattaccare con agguati contro uomini simbolo: crimini da entrambe le parti su cui non è superfluo fare comparazioni.

Gli arresti della scorsa settimana sono però l’ultima – per ora – conseguenza del fatto che nella strategia della tensione sono stati coinvolti molti corpi istituzionali e politici dello Stato; e che tutti ne hanno a loro modo approfittato, trovando poi conveniente non chiudere più quella fase con un’amnistia o un processo di riconciliazione, come sarebbe stato possibile e opportuno anche senza aver individuato e processato i responsabili di tutte quelle stragi. La rendita politica di quella non-decisione ha così continuato a venir riscossa; e Draghi e Cartabia cercano di intascarne la loro quota; mentre la pena retributiva sostituisce, per molti parenti delle vittime della lotta armata di un tempo, quel “risarcimento” che lo Stato avrebbe dovuto offrir loro in ben altro modo.

Condivido il dolore dei parenti delle vittime (tutte) del terrorismo di sinistra, di destra e di Stato, a partire dalla moglie e dalle figlie di Pino Pinelli, vittima del terrorismo di Stato; e senza assolutamente escludere la vedova e i figli del commissario Calabresi: so anch’io che cosa significa crescere senza un padre, anche se il mio è morto in circostanze certamente meno drammatiche. Ma per me, che ho seguito giorno per giorno quei molteplici “gradi di giudizio” è impensabile che da quelle udienze si potesse ricavare il minimo indizio di colpevolezza degli imputati, Marino compreso, come aveva giustamente concluso la sentenza assolutoria del secondo processo di appello (mentre capisco benissimo come possano essersene convinti quelli che sono stati informati esclusivamente dalla stampa e dai media dell’epoca. Di fatto solo il manifesto, allora come oggi, ha riferito come stavano le cose impegnandosi ad analizzarle con spirito critico). A meno di essere già determinati a priori a quell’esito: come lo era la maggior parte dei giudici togati, accettando di fatto che il processo, più che alla ricerca dei veri colpevoli, fosse indirizzato alla punizione della campagna con cui Lotta Continua aveva costretto il commissario (che poi se ne sarebbe ritirato con una ricusazione) a portarla in tribunale. D’altronde, a riprova di un pregiudizio ormai consolidato, nessuno, né tra i magistrati, o i giornalisti, o i familiari, aveva sollevato obiezioni quando, per dimostrarne la natura criminosa, era stato sostenuto che a uccidere Rostagno, per farlo tacere, era stata una struttura armata di Lotta Continua.

Sofri e Bompressi sono stati condannati in base a ricostruzioni false di Marino, contraddette dai fatti e da tutti i testimoni. Pietrostefani nemmeno da quelle. Il processo non ha mai indicato una sola circostanza di tempo o di luogo, o le modalità per accusare Pietrostefani di aver ordinato a Marino di uccidere il commissario: quelle inizialmente indicate da Marino sono state poi da lui stesso sconfessate: si erano rivelate insostenibili. Pietrostefani è stato condannato a 22 anni solo perché membro di un “comitato esecutivo” che, secondo Marino, un anno prima dell’omicidio ne avrebbe predisposto l’attuazione. Ma Marino aveva inizialmente indicato come membri di quel comitato anche Rostagno, Brogi, Boato, Morini e altri, che l’accusa ha subito “dimenticato”, consapevole, dopo l’iniziale entusiasmo, della debolezza di un impianto accusatorio interamente basato solo sulla testimonianza del “pentito” Marino. Così come sono state lasciate cadere altre accuse assurde e insostenibili di Marino contro Paolo Liguori, Luigi Bobbio o Luigi Noia. Aggiungo – avevo aggiunto allora, quando il reato non era prescritto, in diverse dichiarazioni e con una raccomandata alla Procura di Milano, pubblicata dal manifesto – che del comitato esecutivo di Lotta Continua avevo fatto parte anche io, che per sette anni ero stato, insieme a Sofri e Pietrostefani, al vertice di quella organizzazione e non potevo non averne condiviso tutte le responsabilità. Nessuna reazione. Per questo mi ritengo la prova provata che quel molteplice e contradditorio processo è in realtà una delle più grandi patacche della storia giudiziaria italiana. Processi di quel tipo – tra cui questo, svolto ben oltre la fine dell’emergenza – tutti basati solo su dichiarazioni di “pentiti” sia veri che falsi, ben giustificano i dubbi di Mitterrand sul modo in cui veniva gestita la Giustizia in Italia.

Oggi però nuovi elementi per ricostruire un diverso contesto di quella vicenda non mancano. Nella Questura della defenestrazione di Pinelli erano presenti ben 13 (tredici) funzionari dell’Ufficio Affari Riservati mandati da Roma per partecipare, con tutta evidenza, alla montatura contro Pietro Valpreda. Di quella ingombrante presenza, che la Procura di Milano aveva accuratamente evitato di scoprire, anche il commissario Calabresi non ha mai fatto parola. Ma è sensato pensare che nel corso del processo a suo carico, avviato dalla denuncia di Licia Pinelli, che lo vedeva ora come imputato e non più come querelante, Calabresi avrebbe potuto parlarne. Non ne ha avuto il tempo e la sua uccisione lo ha trasformato da bersaglio di una campagna accusatoria allora largamente condivisa dall’opinione pubblica nell’icona dell’irreprensibile servitore dello Stato; esonerandolo post mortem dalle sue responsabilità con la grottesca sentenza sul “malore attivo dell’anarchico Pinelli”.

Articolo pubblicato oggi da il manifesto, qui la versione integrale

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