Rovine aperte

1 Dicembre 2007

Mario Cubeddu

Chi non si lamenta della decadenza dei paesi sardi, chi non si lamenta della crisi del settore agropastorale in Sardegna? Anche la signora che vende i prodotti ortofrutticoli di produzione propria ad Oristano. Eppure è uno dei simboli più riusciti di quel tanto di melting-pot, di fusion etnica, che il Novecento ha prodotto in Sardegna. Lei, di Oristano, ha sposato un ragazzo di Arborea, figlio di contadini veneti immigrati. Hanno unito le eccellenze di due popoli, quello veneto e quello sardo, la capacità di lavorare sui campi da parte di lui e quella di di reggere la famiglia e i rapporti sociali da parte di lei. Il figlio, un ragazzone dalle guance colorite, efelidi e capelli rossi, che ha un cognome che più veneto non si può, parla quasi sempre il bellissimo campidanese della città di Eleonora. Eppure anche qui ci si lamenta del fatto che il mercato all’ingrosso preferisce comprare prodotti che vengono da lontano, che hanno percorso migliaia di chilometri, e i clienti si fanno fuorviare dalle sirene, o dell’esotico ad alto prezzo, o delle porcherie a prezzo stracciato. In Sardegna chi produce in agricoltura è in crisi profonda, sommerso dai debiti, incentivato a smettere di lavorare, cacciato dal mercato.
E’ facile osservare che il mondo agropastorale sardo è uscito dal discorso pubblico. E’ un settore residuale, di cui si pensa di poter fare benissimo a meno. Se ne può parlare con sufficienza, per esprimere il sottile disprezzo che la città sarda cova contro il pastore e il contadino, per manifestare l’intolleranza per i comportamenti rozzi, selvaggi, dei sardi dell’interno. Sono cose che sembrano far parte della pedagogia involontaria delle istituzioni culturali sarde. Non si sa come, nè perchè, i ragazzi continuano ad uscire dalla scuola sarda con un radicato disprezzo verso tutto ciò che riguarda la campagna e le attività agricole. Saranno professoresse che odiano le scarpe sporche dei mariti, saranno professori, come tanti ce ne sono stati in questi decenni, che non sanno distinguere un toro da una vacca, una pecora da una capra, un covile da una stalla.
Aveva ben ragione John Day nel proporre la vicenda storica sarda come laboratorio esemplare di storia coloniale. Ultima vicenda quella del latte sardo. Nel 2007 il cammino del gambero della monocultura agricola sarda, la produzione del latte di pecora, è arrivata a compiere il giro completo del cerchio. Si venderà direttamente la materia prima, il latte, ai trasformatori continentali, ottenendo un prezzo migliore di quello che si può ottenere trasformandola in loco. Come un tempo i minatori sardi, piccoli, seminudi e affamati, cavavano dalle profondità il minerale da imbarcare per i luoghi, l’Inghilterra, la Francia, il Belgio, dove esso sarebbe diventato ricchezza, così il latte sardo sarà esportato in Toscana per produrre il pecorino toscano, nato dal lavoro congiunto della politica di quella regione e dei pastori sardi emigrati da decenni? Cos’altro poteva derivare dall’aver supinamente accettato per più di un secolo un fatto assolutamente innaturale, come tale lamentato e sentito sin dai primi decenni del Novecento, e cioè che il prodotto principale del settore agro-industriale sardo fosse costituito da un pecorino chiamato romano? Solo nelle colonie avviene che il principale prodotto di esportazione agricola sia dei tutto ignorato dalla popolazione locale. La gran maggioranza dei sardi non ha solo mai assaggiato, ma neanche mai visto una forma di pecorino romano.
In compenso i fine settimana di molti paesi sono diventati occasione di attrazione nei confronti delle folle cittadine. Si aprono le cortes o altre strutture simili, si crea un percorso di esposizione di prodotti e di visita dei villaggi. E’ un’occasione per conoscere la bellezza sopravvissuta della campagna sarda, per apprezzare lo schema antico di costruzione degli isolati e dei quartieri dei nostri paesi, per ammirare quel che è rimasto degli elementi decorativi di pregio che le case di un tempo avevano e che sembrano mancare nell’architettura anonima degli ultimi decenni. Ma ciò che si propone alla mostra e all’acquisto è una ben povera economia. Perchè ben poco è rimasto di produzione economica nella Sardegna interna. Tentativi più che altro. A volte sembrano essere resi visibili solo per dimostrare che gli enti vari che ricevono e spendono le cifre enormi destinate dall’Unione Europea allo sviluppo locale hanno senso di esistere. In altri, pochi, casi c’è una vera capacità organizzativa, una cultura pratica e sociale radicata, una volontà di non morire e di invertire un percorso negativo. In settori limitati di produzione agricola, in esperienze nuove di allevamento e commercializzazione di formaggi e carni selezionate, in produzioni artigianali che amano la tradizione così tanto da essere capaci di trasformarla, sono impegnati oggi produttori e tecnici attivi e capaci. Essi hanno bisogno di un forte sostegno sociale. L’attenzione della città è testimoniata dalla migliaia di visitatori. La politica regionale sembra avere idee chiare e volontà di agire come mai forse è successo nella lunga vicenda della Sardegna moderna. Manca forse una voce morale che tenga insieme gli sforzi, che non porti ad abbandonare i primi passi di sviluppo sostenibile che si stanno tentando nella nostra isola. Cominciando col difendere con le unghie e con i denti ciò che si è conquistato nella legislazione paesaggistica e ambientale.

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