Sa Die de sa Sardigna, un approccio decoloniale

21 Aprile 2022

[Jessica Perra]

Laddove la storia sarda è narrata come una storia di dominazioni in cui il soggetto sardo è assente o passivo, Sa Die può essere un’opportunità per riscoprire un approccio decoloniale sulla Sardegna a partire da un soggetto sardo attivo e rivoluzionario capace di guardare alla questione sarda riflettendo sulle attuali colonizzazioni nell’isola, ispirati anche, da altri indipendentismi più avanzati.

Una delle grandi contraddizioni che abitano la Sardegna, concerne proprio la costruzione dell’identità sarda. Per i sardi è nell’identificazione con la propria terra e l’amore per le sue bellezze che passa innanzitutto la sardità, viene meno invece un’identità comunitaria fondata sul senso di appartenenza storico-culturale in quanto popolo. 

Alla radice di questa individualità collettiva è presente un grande rimosso storico, operato mediante la costruzione di un soggetto sradicato “Che è indotto a disconoscere e soprattutto ignorare la propria storia, la propria lingua, la propria cultura o a presentarla come inadeguata, marginale” (Filosofia de logu, pp33) e che culmina nell’oscillazione fra identità locale e nazionale come direbbe Antioco Floris. 

Due identità che convergono ma sono in conflitto poiché rappresentano una dimensione culturale di egemonia e subalternità, dando luogo a quel particolare sguardo autocolonizzante che vede la compresenza della vergogna di sé – come la difficoltà nel conferire al sardo la stessa dignità linguistica dell’italiano nell’uso quotidiano e in situazioni formali – e il senso di fierezza folklorista che ricalca le aspettative del turista in Sardegna alla ricerca di esperienze esotiche, paesaggi rurali, pastori, signore vestite di nero cun su muncadori e veline.

Si evince che questa sia la condizione perfetta per sterilizzare autentiche forme di autocoscienza ed emancipazione, tutt’oggi ostacolate dalla stessa Repubblica Italiana che da un lato ha fatto sì che i sardi potessero smettere di esistere in quanto popolo, per assumere l’identità italiana e dall’altra attraverso il regionalismo, il quale più che assicurare vantaggi in termini di autonomia e libertà, ha portato la Sardegna ad essere ridimensionata come periferia dell’Italia e a condividere la stessa sorte economica del sud. Sebbene, quando si parla di questione meridionale si fa presto ad escludere la Sardegna.

Eppure, nonostante tutto negli ultimi anni grazie alla convergenza di diversi movimenti di attivismo si stanno intensificando i dibattiti in Sardegna sull’indipendentismo conflittuale, il femminismo decoloniale e l’antimilitarismo in un’inedita intersezione ben racchiusa nello slogan “Terra e fèminas non semus logu de conchista”, terra e donne non siamo luoghi di conquista. 

Ed è proprio da Su logu forse, il punto su cui si sta innestando questo processo di riappropriazione identitaria che sarà riterritorializzazione del sapere e della cultura. 

Dunque, quale giorno migliore se non Sa Die de sa Sardigna? 
Laddove la storia sarda è narrata come una storia di dominazioni in cui il soggetto sardo è assente o passivo, Sa Die può essere l’opportunità per riscoprirsi a partire dal soggetto sardo attivo e rivoluzionario che si ricorda nell’attuale Inno ufficiale della Sardegna “Procurade ‘e moderare barones sa tiranìa”.

Tuttavia occorre attualizzare gli impeti di quella coraggiosa sommossa del 28 aprile 1794 affinché non vengano relegati ad un’anacronistica memoria ma possano indagare la storia sarda contemporanea proprio a partire dalle conseguenze del ’96 che hanno definito la Sardegna innanzitutto come la storia di una nazione mancata, ispirati anche sotto il segno delle recenti vicende corse e dalle riflessioni degli altri indipendentismi più avanzati lungo il perimetro occidentale dalla Catalogna al Kurdistan.

Nell’immagine un murale realizzato dal professore senese Francesco Del Casino, padre della maggior parte delle opere dipinte ad Orgosolo, come omaggio a Juanne Maria Angioy.

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