Soberania

16 Settembre 2012

Jacopo Bene, Enrico Lobina

In questi giorni su Il Manifesto Sardo è iniziato un dibattito sulla questione della “sovranità” al quale siamo stati invitati a intervenire.
La sovranità come neologismo o vuota etichetta
Quando Marco Ligas rileva che sotto l’etichetta di “sovranista” si rifugiano numerosi e su molti aspetti contrastanti gruppi politici, non si può che dargli ragione. In questo modo, l’ultimo neologismo della politica sarda rischia di perdere significato, riducendosi a un indefinito richiamo identitario. È, quindi, necessario capirsi su cosa s’intenda quando ci si definisce soberanistas e s’invocano alleanze sovraniste.
La nostra idea di sovranità
Non vogliamo buttare via il bambino con l’acqua sporca. Se il concetto di sovranità tende a perdere un significato specificatamente nazionale e rivoluzionario, esso è nondimeno un condimento essenziale di ogni proposta politica che pretenda di essere rivoluzionaria. Oggi in Sardegna la risoluzione della maggior parte dei problemi ( dalle lotte per il lavoro al rapporto con Equitalia, dall’occupazione militare alla vertenza entrate) non può che passare per una conquista di fette di sovranità.
Essere soberanistas vuol dire essere dei rivoluzionari, in quanto significa essere disposti a entrare in un campo d’azione finora largamente inesplorato: il governo dell’Isola senza l’appoggio e il consenso dei poteri che ci sovrastano (Italia, Unione Europea, Nato, multinazionali, finanza).
Sovranità come risposta alternativa alla crisi
Sempre più ferite si aprono nel corpo della società sarda. Gli antichi rimedi funzionano sempre meno. Bisogna pensare soluzioni alternative.
Di fronte al collasso dell’industria d’importazione bisogna mettere in campo un piano per un’”industria nazionale”, approfittare della crisi per costruire qualcosa di migliore di ciò che abbiamo avuto finora.
Per fare questo serve un grande sforzo collettivo di studio e di elaborazione economica, di mobilitazione massiccia, di coerenza. Una Vertenza Sardegna al posto delle tante singole vertenze, che ponga all’ordine del giorno un piano complessivo di sviluppo. Con la fine dell’Autonomia e dei Piani di Rinascita, davanti a noi si ripropongono irrisolti i problemi che attanagliavano l’Isola negli anni ’50: minatori, pastori, energia, povertà e disoccupazione sono ancora lì in attesa di risposte.
In quell’epoca c’era un’idea dello sviluppo basato sulle risorse locali (agricoltura, pastorizia, artigianato, turismo e l’industria collegate a queste attività e alle risorse del territorio). Si trattava di un cammino lungo, da percorrere a piedi, ma che ci avrebbe anche portato avanti senza dipendenze. La politica sarda preferì una crescita rapida e violenta, a tutto vantaggio delle multinazionali estere, dei padroni dell’industria e dello Stato centrale: poteri sotto cui si rimase dipendenti. Oggi vediamo cosa significa economia di dipendenza, come sanno bene gli operai Alcoa. Vediamo cosa significa avere una classe politica asservita a quegli interessi, succube e paurosa. Questi sono i risultati dei Piani di rinascita e della politica autonomista.

Sarà rischioso, difficile e talvolta doloroso, ma è giunta l’ora di voltare pagina. Diversamente non c’è futuro.
Stiamo ben attenti: questo non vuol dire che bisogna accettare con indifferenza il destino di chi oggi subisce l’ennesimo tradimento da parte dell’industria d’importazione, come i minatori, gli operai dell’Alcoa o della Vinyls. Anzi. Dopo tante umiliazioni, il loro coraggio è un ammonimento: la Sardegna ha ancora una sua dignità. In tanti, anche sardi, se n’erano dimenticati.
Queste lotte sono un esempio. Chi le porta avanti non deve essere lasciato solo. Ma questo non basta. Se è vero che lo Stato traditore deve risarcire territori e lavoratori, prolungando la loro vita produttiva, provvedendo alle bonifiche ed erogando ammortizzatori sociali straordinari, è ugualmente necessario che coloro che si considerano soberanistas, siano essi nei partiti o nei sindacati, attuino un nuovo modello di sviluppo.
Non servirà una grande fantasia. Le linee sono state più volte tracciate in questi decenni. Servirà invece impegno e coraggio, almeno come quello che hanno dimostrato gli operai e i pastori. Lo posseggono i sedicenti sovranisti? È giunta l’ora di dimostrarlo.
Questa volta lo Stato metta i soldi, quelli che ci deve, le multinazionali bonifichino, ma il piano facciamolo noi, accompagnando alla porta ruffiani e lacchè degli interessi stranieri, siano essi italiani, americani, europei, della finanza o delle multinazionali.

La soberania è la massima espressione del potere del popolo, in ribellione a tutti i poteri formali e informali responsabili del disastro che viviamo. La nostra idea di sovranità è, quindi, un processo rivoluzionario di conquista di democrazia reale, cioè del potere di decidere liberamente del proprio futuro.

L’unione delle forze che si riconoscono in progetto rivoluzionario sardo
L’unità è sempre invocata, sia in campo indipendentista che in quello della sinistra convenzionale. Resta il fatto che le divisioni sono spesso incomprensibili. Noi non crediamo nelle unioni a tutti i costi. Crediamo che tra chi condivide obbiettivi simili ci debba essere maggiore collaborazione. Ma soprattutto tra chi si riconosce nel programma di una sovranità rivoluzionaria, e in Sardegna sono in crescita le persone più o meno politicizzate che si dichiarano pronte a un cambiamento radicale, serve creare un polo su cui far convergere e accumulare le forze.
Nessuno dei partiti che potremmo definire potenzialmente rivoluzionari è in grado di esercitare il ruolo di polo di attrazione di queste energie. È necessario crearlo, e lo si può fare solo partendo da quello che già c’è. La creazione della Consulta Rivoluzionaria è un segnale. Così come il congresso di Sinistra Critica. Anche Rifondazione deve fare la sua parte, incominciando dall’approfondire la sua idea di politica soberanista, ed affrontando il rapporto con la direzione italiana. Anche questo fa parte della rottura col passato di dipendenza.
Oggi non serve decidere se sia lecito che comunisti e non-comunisti collaborino in una medesima organizzazione o movimento, così come è superato porsi la questione della collaborazione tra indipendentisti o non-indipendentisti. Le questioni di etichetta sono spesso segnale della mancanza di contenuti. Serve invece pensare alla collaborazione tra coloro che sono realmente, al di là delle etichette, rivoluzionari: cioè disposti a chiudere con l’epoca della dipendenza economica e politica e a creare una società nuova in grado di garantire a tutti benessere e serenità.

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