Il socialismo del XXI secolo: uno sguardo critico, ma non troppo

16 Giugno 2016
chavez
Luca Mozzachiodi

Questa è a conti fatti una storia, una storia dell’America Latina nell’ultimo quarto di secolo, vale a dire più o meno dal disastro dei governi di destra, che si insediano e propugnano politiche liberiste in quasi tutto il continente all’inizio degli anni Novanta, attraverso la decade dorata 2003-2013 che vede affermarsi molti governi con posizioni progressiste quando non apertamente rivoluzionarie all’attuale prospettata rimonta dei liberali; le categorie chiave scelte dagli autori sono tra le più controverse oggi: il socialismo del XXI secolo e il populismo.

Si tratta in entrambi i casi di fenomeni di difficile definizione, il primo pare essere anche una conseguenza del secondo, si tratta cioè di un socialismo che ha spostato il suo nucleo fondamentale dalla collettivizzazione a seguito di un fisiologico conflitto tra classi, a una redistribuzione di mezzi e poteri a seguito di precedenti sperequazioni, tramite una lotta che spesso in quei paesi ha coloritura e respiro nazionalistico e che viene presentata e in parte condotta come “la lotta di tutti gli oppressi contro tutti gli oppressori”.

Naturale dunque che di conseguenza i socialisti del XXI secolo siano anche i populisti del XXI secolo, dove per populismo bisogna intendere non la demagogia ma uno schema interpretativo semplificatorio dei rapporti politici che pone da una parte il popolo, portatore di diritti, virtù e salute, dall’altra i suoi nemici esterni ed interni allo stato, generalmente portatori di interessi, sopraffazione, corruzione. Il populismo è, per eccellenza, la mistica politica dell’indistinto, una potente arma di rappresentazione mitica.

Nessun problema al riguardo, siamo fuori dalle polemiche da salotto televisivo di tanta politica del nostro paese, se i risultati sono l’abbattimento dell’analfabetismo, una riduzione della povertà di decine di punti percentuale, la nazionalizzazione delle risorse minerarie, petrolifere e idriche, l’accesso ai servizi pubblici e la tutela delle diverse etnie e culture come anche quella dell’ambiente, cose tutte di fatto avvenute nei paesi del Sudamerica che hanno conosciuto un periodo di governo socialista, per mio conto hanno tutto il diritto ad usare le armi mitiche che occorrono e anche quelle automatiche, se occorreranno.

Non si tratta qui di discutere le conquiste politiche di quei popoli e di quei governi, che sono certamente il movente morale, per così dire, di questo libro. Su questi progressi, su queste rivoluzioni c’è un silenzio complice in Europa e c’è molta disinformazione, ma anche non poca idolatria sterile.

Mi dispiace allora notare come in questo pur stimolante e necessario volume troppo spesso manchino le cifre relative a queste conquiste, come i riferimenti e le citazioni siano costituiti perlopiù da semplice prosa giornalistica, Il Fatto Quotidiano in particolar modo, che non mi pare affatto un modello di analisi politica, sorvolando troppo spesso sul fatto che i corrispondenti o i curatori degli esteri delle varie testate sono, in genere per area o paese, sempre gli stessi.

Così come è un fatto grave, che getta più di un’ombra sulla professionalità e completezza dell’opera, l’assenza di bibliografia pubblicata in Ameria Latina. Dato che il pensiero di qualcuno che voglia scrivere la storia politica di un continente senza citare neanche un testo storiografico pubblicato in quel continente pare semplicemente prossimo al ridicolo voglio sperare che il buonsenso degli autori glieli abbia fatti consultare ma escludere dalla bibliografia ragionata.

Resta comunque un’operazione necessaria che cerca di colmare un vuoto troppo grande su quello che viene definito un grande laboratorio politico e ci sono pagine bellissime soprattutto sui paesi dell’Alba (Alleanza Bolivariana per le Americhe) e sull’Argentina, anche se in questo caso con una mancanza di dati a suffragare le affermazioni.

Più di tutto bisogna ricordare che oggi difficilmente un giornale, un programma televisivo o una rivista darebbero spazio e continuità ad un racconto sulle più vistose evoluzioni sociopolitiche di un paese non europeo, fare questo, anche se con qualche approssimazione di troppo, è il merito più alto del volume, che può essere considerato una sorta di manuale divulgativo sulle nuove sinistre latinoamericane.

L’esposizione è ordinata per stati ma diseguale: metà del libro tratta Venezuela, Bolivia, Ecuador, l’altra metà il resto del continente, si tratta indubbiamente non di una svista ma di una precisa scelta di metodo: è solo in Chávez, Morales e Correa che gli autori hanno creduto di poter riconoscere un vero progetto rivoluzionario, che traeva dalla riscrittura delle costituzioni dei tre paesi la forza di una palingenesi politica.

C’è infatti in questa prima parte il respiro di un pamphlet politico o di una arringa di difesa, condotta in qualche passo anche con una certa bravura, ma forse sarebbe stato opportuno chiarirsi le idee prima; o si scrive una difensoria politica o si scrive un saggio politico, storico e sociale e nel secondo caso probabilmente il gigantesco Brasile con la sua alta complessità sociale e la sua economia trainante a livello mondiale avrebbe meritato più di una quindicina di pagine frettolose.

La cornice interpretativa, sulla quale bisogna focalizzarsi data anche la struttura un po’ frammentaria del libro, è semplice ma non banale: in America Latina dopo il fallimento di governi di destra si è avuta al principio del nuovo millennio una rimonta di movimenti e partiti di sinistra riconducibili ad un’area di sinistra, riformista o rivoluzionaria che hanno fatto propri i modi del populismo e che, dopo molti successi, o si trovano in difficoltà per un cambio di leader (Venezuela, Brasile e Uruguay) o dovranno porsi il problema del consolidamento della loro esperienza dopo una magmatica fase costituente (Bolivia e Ecuador) o si trovano all’opposizione (Argentina e Paraguay).

Tutto ciò avviene o per un eccesso di personalizzazione della politica intorno alla figura di un capo carismatico, cosa che ci ripetono fino alla nausea in Europa, o, analisi che mi pare molto più raffinata e interessante e che mi sembra il miglior esito teorico del libro, perché le politiche di welfare e il benessere maggiormente diffuso hanno contribuito al formarsi di una classe media che i programmi politici dei socialisti non sono compiutamente in grado di rappresentare; cioè in sostanza l’emergere di una dialettica di classi rompe il paradigma populista.

Che peccato. Penseranno gli europei che nutrono da sempre la nostalgia dell’alterità possibile e il mito di un Sudamerica da cartolina, e adesso che si avviano forse ad essere come noi dove andremo a fare la rivoluzione? Che fine faranno i Diari della motocicletta, i poster di Allende, il discorso di Mujica su tutti i socialmedia e le foto delle giungle, dove va detto, sembra che il bello sia poter sparare al nemico perché lì, almeno, l’hai davanti e non devi sforzarti a pensare per capire dove sia, come si muova e come combatterlo.

Lezzi e Muratore prendono le mosse da una critica di questa opposizione infantile e avvertono il lettore che si tratta di una realtà politica complessa e che per comprendere questo fenomeno dobbiamo in parte riformulare le nostre categorie politiche, in particolare quelle di destra e sinistra.

Partono, appunto, con tutte queste cautele, ma volentieri se ne dimenticano, procedendo a colpi di stampa italiana e di definizioni schematiche a volte, o nell’imbarazzo delle pozzanghere che loro stessi hanno additato, come quando, preda del cliché dell’uomo forte che sempre affascina un certo sovversivismo europeo nella difficoltà a definire la figura di Chávez si producono in un elenco strampalato e un po’ sinistro che comprende De Gaulle, Perón, Sankara e Gorbačëv. Siamo d’accordo a non irrigidire la politica che si fa in schemi forse antiquati, però, si sarebbe tentati di replicare, la fine della destra e della sinistra non è la notte in cui tutte le vacche sono rossobrune.

Perón in particolare ritorna più volte nel corso del libro come idolo, figura centrale e problematica per gli occidentali, e padre ideologico del populismo latinoamericano; può ben esserlo, il peronismo ha avuto molte anime, ma a suo tempo, nella sua Argentina, non oggi e nel bene o nel male non può essere una risposta politica.

Certo che allora a leggere queste righe della conclusione: «L’unica possibilità è quella designata da un “populismo conservatore” in grado di rispondere alle nuove esigenze della popolazione tramite una costante fase riformista» si resta quantomeno un po’ perplessi circa il significato politico di queste parole, si ha l’impressione che persino gli autori abbiano delle difficoltà a farsi le idee chiare, ma le pagine che le precedono fanno balenare un certo fascismo di sinistra, al quale confesso, da comunista, di preferire comunque la democrazia, una democrazia reale da mettere in atto, nella quale un uomo non abbia, politicamente, esigenze cui rispondere ma diritti e volontà da esprimere.

Credo piuttosto che alla volontà di eliminare quelle forme di oppressione, sfruttamento e miseria che impediscono il pieno esercizio di quei diritti, così come ad un profondo umanismo siano ispirate le politiche del socialismo del XXI secolo. Per averne notizia questo libro sarà certamente un buon strumento, c’è da pensare che i limiti siano dovuti più che altro alla troppo giovane età degli autori rispetto alla vastità del progetto di cui questo è il primo frutto, molto acerbo sì, ma altrettanto coraggioso.

Recensione ripresa da il Manifesto di Bologna a Luca Lezzi e Andrea Muratore Il socialismo del XXI secolo: le rivoluzioni populiste in Sudamerica, Circolo Proudhon.

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