Sulcis: il coraggio di cambiare

1 Settembre 2014
Fluminimaggiore, pittura murale
Michela Angius

Non è più competitivo. È sostanzialmente questo il motivo della chiusura definitiva dell’impianto di alluminio di Portovesme. La multinazionale americana ha annunciato che l’impianto non riaprirà a causa dell’alto costo di produzione dell’alluminio, tra i più alti negli smelters di Alcoa.
“Le ragioni di fondo che rendevano non competitivo l’impianto di Portovesme non sono purtroppo cambiate”, ha dichiarato Bob Wilt, Presidente di Alcoa Global Primary Products. “Continueremo a rispettare gli impegni assunti con i nostri dipendenti e con gli stakeholder agendo in buona fede come abbiamo sempre fatto”.
Chi sperava in una retromarcia da parte degli americani si è sbagliato.
Nel comunicato si legge “come da impegni presi con governo e sindacati, Alcoa ha posto in essere per i dipendenti un programma di sostegno finanziario e sociale comprensivo di servizi per l’outplacement e la ricerca di una nuova occupazione”.
A sentire alcuni dei lavoratori Alcoa non sarebbe proprio così. O per meglio dire, il programma pensato dagli americani è inadatto e privo di qualunque concreto fondamento per garantire un’effettiva riqualificazione professionale. Del resto quale riqualificazione? Una riqualificazione pensata e ragionata sulla base dei lavoratori e di ciò che si vorrebbe realizzare nel territorio, o una riqualificazione caduta dall’alto con l’unico fine di sbarazzarsi dei propri dipendenti?
Per fortuna arrivano in soccorso le parole sempre rassicuranti della politica.
Per Francesco Pigliaru, Governatore della regione sarda, la comunicazione della multinazionale statunitense “è un annuncio che non ha alcuna conseguenza sulle trattative per la cessione dello stabilimento”. Sul sito istituzionale della Regione Sardegna si legge che si lavora con il massimo sforzo per consentire l’acquisto degli impianti di alluminio da parte di un altro soggetto imprenditoriale. Forse la domanda può sembrare banale, ma se per Alcoa l’impianto non è più competitivo, come potrebbe esserlo per un’altra multinazionale?
È sicuramente compito della politica non creare allarmismi, promuovere una visione incoraggiante e confortante. Perché si sa che il pessimismo non porta mai da nessuna parte. Ma se anche ci sforzassimo di vedere il bicchiere mezzo pieno, la realtà ci dice che dal 2008 il Sulcis è piombato in una crisi senza precedenti. Ormai sono otto anni. Le parole tranquillizzanti dei politici, pronunciate indifferentemente da destra e sinistra, sono servite a poco se non a lasciare tutto fermo e immobile.
E ora? Non è arrivato forse il momento di fermarsi a pensare se sia possibile promuovere un nuovo modello di sviluppo per il Sulcis? Se sia possibile progettare una riconversione del territorio che tenga conto delle sue peculiarità? Non è pura e semplice utopia, o almeno non lo è più di quanto non lo sia tenere migliaia di persone inermi per quasi dieci anni.
È vero che riaprire gli stabilimenti porterebbe un immediato benessere alle famiglie e al territorio. E nel lungo periodo? Sarebbe veramente così? O si continuerebbe a rimanere ostaggio delle multinazionali?
Siamo tutti consapevoli che la decisione da prendere non è semplice e probabilmente nemmeno molto popolare. Ma in questo momento occorre lungimiranza e una certa dose di coraggio per smettere di illudere un’intera popolazione che prima viveva sotto il ricatto delle fabbriche e ora è nelle mani della politica. Senza però ottenere nessun giovamento.

 

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