Sulla crisi della fabbrica di bombe Rwm

21 Luglio 2020

Murale del collettivo FX sulla RWM di Domusnovas-Iglesias. Foto Lorenzo Sibiriu

[Arnaldo Scarpa e Cinzia Guaita]

Il Comitato Riconversione Rwm prende atto con preoccupazione di quanto comunicato dalla direzione aziendale Rwm relativamente all’impossibilità di mantenere gli attuali (ridotti) livelli occupativi dello stabilimento di Domusnovas-Iglesias.

Si tratta di 80 posti di lavoro già persi e di altri 90 a rischio, ancorché provvisoriamente affidati alla cassa integrazione, in un territorio che, da tempo ridotto al lumicino, ha visto affievolirsi ulteriormente le proprie speranze di salvezza in questo tempo di epidemia.

Le conseguenze economiche del divieto di esportazione verso paesi belligeranti imposto dalla legge 185/90 e voluto da parlamento e governo nello scorso luglio, hanno finito per ricadere esclusivamente sugli anelli deboli della catena: i lavoratori e le loro famiglie. Come troppo spesso succede.

L’azienda ha un cliente principale che giustifica economicamente la sua attività e quel cliente è un paese che da 5 anni è in guerra contro una parte dei cittadini yemeniti, con tutta la potenza del suo apparato militare che non bada a spese pur di annientare il nemico ed è sostenuto da buona parte dei paesi occidentali. Ma quel cliente, fortunatamente, è, al momento, all’angolo.

Eppure, lo scenario potrebbe essere ben diverso se solo il gruppo tedesco Rheinmetall, che detiene la proprietà della fabbrica, indirizzasse i propri investimenti in Sardegna verso altre direzioni, meno dipendenti da scelte di morte e di distruzione.

Buona parte del fatturato della multinazionale con sede a Berlino, infatti, proviene dal settore civile e niente gli impedirebbe di convertire al civile anche le produzioni dell’isola.

Invece, come si legge anche nel comunicato, persistono gli investimenti finalizzati ad incrementare la produzione di armi, che prevede un tipo di occupazione meno stabile perché continuamente soggetta alle fluttuazioni di un mercato per sua natura scoppiettante.

Stavolta è la scelta governativa di rispettare finalmente la legge a mettere a rischio l’occupazione di qualche centinaio di lavoratori, la prossima potrebbe essere la fine di una guerra. Volere espandere la produzione di armi significa non aver interesse alla pace. Quella bellica è un tipo di industria predatoria che costringe quadri e operai a desiderare che guerre e distruzioni non abbiano mai fine, pur di salvaguardare il proprio lavoro.

Da anni diciamo queste cose e da anni mettiamo in guardia contro la fragilità occupativa dell’industria bellica, soggetta a repentini cambi di programma, ribaltamenti geopolitici e prese di posizione dei governi che controllano la produzione. Da anni affermati studiosi sostengono che le industrie belliche siano fonti di ingenti guadagni per pochi e non portino vero sviluppo ai territori nei quali si installano.

La legge 185/90, oltre a prevedere divieti e attente regolamentazioni, stabilisce anche che possa essere lo Stato a farsi carico delle conseguenze delle crisi dell’industria bellica, prevedendo un fondo per la riconversione.

Piuttosto che tenere in vita un’industria così precaria, con sussidi pubblici e artifici amministrativi, non sarà il caso di mettere in cantiere, subito, un progetto di riconversione industriale al civile, finanziato dallo Stato, magari approfittando dei fondi stanziati dall’Unione per la conversione ecologica, green, dell’economia europea?

Le istituzioni, facciano la scelta giusta: sostengano subito e direttamente i lavoratori, con gli strumenti necessari, senza incentivare nuove intraprese belliche della proprietà aziendale ma anzi promuovendo una radicale conversione delle produzioni, ecologica e pacifica, per il bene di tutti i sardi ma anche, contemporaneamente, delle popolazioni straziate dalle “nostre” bombe.

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