Un giorno in questura

15 Luglio 2007

Manuela Scroccu

Chi è lo “straniero”? Mboup, che ha 37 anni, viene dal Senegal ed è in Italia con un permesso di soggiorno regolare e in attesa di ottenere la carta di soggiorno, mi dice che è lui lo straniero, nonostante sia nel nostro paese da sette anni e che stranieri saranno i suoi figli, se mai ne avrà. Perché a lui e a quelli come lui, toccheranno sempre i lavori peggiori, e che nessuno gli affitterà mai una vera casa ma solo cameroni indecenti. Trad, di anni ne ha 28. Lui straniero ci si sente e si sente pure di passaggio; vuole tornare, dopo aver fatto un po’ di soldi, a casa sua in Tunisia dove, mi dice, la straniera sarei io se capitassi un giorno per la sua città. Straniero vuol dire che tutti ti guardano male e pensano che spacci e ti chiamano “marocchino”, vuol dire le signore anziane con la busta della spesa, che quando ti vedono cambiano strada, perché hanno paura che tu le possa scippare. Vuol dire che devi solo lavorare, per conservare i soldi e tornare casa, senza tante chiacchiere e problemi; ma va bene anche così, in fondo. Svetlana è ucraina, è in compagnia della figlia della signora anziana che assiste ogni giorno e che l’ha accompagnata a richiedere il rinnovo del permesso di soggiorno. Anche lei pensa a tornare nel suo paese, dove ha una figlia di 14 anni. Le piacerebbe portarla in Italia, ma per farla studiare all’università. Le faccio i miei auguri mentre la fila scorre veloce, allo sportello dell’ufficio stranieri della questura di Cagliari. Sede decentrata, dietro viale Marconi, per intenderci. Non è giorno di grande afflusso, oggi. Oltre a Svetlana, Trad e Mboup ci sono due ragazzi cingalesi (credo) che sorridono molto e parlano poco e un ragazzo cinese. Lo stanzone, dove si staziona in attesa che venga chiamato il proprio numero, è al piano terra dello stabile: un locale a metà strada tra un pronto soccorso d’ospedale e una sala d’aspetto di terza classe di una stazione ferroviaria di provincia. Con lo stesso odore residuo di quelle attese che possono durare ore, con quel pavimento di mattonelline bianco sporco, calpestato da piedi che hanno attraversato i continenti, con sei sedie un po’ scalcagnate, qualche depliant esplicativo a fare colore e l’immancabile cartello “non oltrepassare la linea rossa”, ma scritto in cinque lingue diverse (francese, inglese, arabo, cinese, italiano). Gli agenti di polizia che stanno dall’altra parte del vetro non sono scortesi, in effetti, ma la burocrazia, quella, è tutta italica, con l’immancabile marca da bollo che manca sempre all’ultimo minuto, con l’attesa per la firma del funzionario, e così via.
Chi si trova qui, in realtà, fa parte dei cosiddetti regolari. Aspetta il suo permesso o la sua carta di soggiorno, ottenuta dopo essersi districato tra i meandri di una legislazione inutilmente farraginosa, la cui riforma, per fortuna, si sta ora discutendo in Parlamento. Un mutamento legislativo che, si spera, ripartirà dal principio che gli esseri umani non sono una merce usa e getta e che, pertanto, gli immigrati nel nostro paese non dovrebbero più essere considerati ospiti, utili per lavorare in imprese avide di forza lavoro e per tamponare il crollo del nostro sistema previdenziale, ma da rispedire al più presto nel loro paese una volta strizzati per bene.
D’altronde la cosiddetta Bossi Fini (che ha stravolto il, peraltro imperfetto, Testo Unico sull’immigrazione n° 286/1998), legando indissolubilmente il permesso di soggiorno al contratto di lavoro, nella figura dei cosiddetti contratti di soggiorno, è figlia proprio di quella concezione ideologica che ha messo in secondo piano la figura dell’individuo migrante come portatore di diritti e doveri, per assumere una visione decisamente più pragmatica, considerandolo come una pratica amministrativa, una merce da sfruttare nel ciclo produttivo finché serve e rende in termini economici. Il resto, gli irregolari, nell’attesa di una legge più giusta e, magari, di una sanatoria, si trova la fuori. Ai semafori, nel commercio ambulante ma, soprattutto, impiegato in nero nei cantieri edilizi oppure nelle serre e nei campi del circondario. Immigrati, clandestini, identificati indistintamente come criminali da un’opinione pubblica che si sente ormai sotto assedio e vede negli stranieri una delle cause dell’aumento della criminalità (peraltro statisticamente tutta da dimostrare). Tutti insieme, regolari e non, cercano di sopravvivere in una città, Cagliari, distratta e indifferente. Che si risveglia dal suo torpore solo alla lettura degli allarmati articoli di giornale che danno la Sardegna come nuova meta finale delle rotte degli scafisti. Preoccupata che le belle spiagge di Pula e Santa Margherita diventino il bivacco di un’orda di disperati (per citare il titolo di un bel libro di Gian Antonio Stella che ci ricordava, sommessamente, di quando dentro le carrette del mare ci stavamo noi italiani, neanche tanto tempo fa), e non più la meta preferita delle gite fuori porta dei cagliaritani.
Intanto, si è fatto mezzogiorno all’ufficio stranieri e un foglietto battuto al computer, appeso con il nastro adesivo, informa tutti che a quest’ora i terminali vengono disattivati, per cui si chiude e tutti a casa. Ma oggi è stata una giornata tranquilla: Svetlana ha avuto il permesso rinnovato, Mboup e Trad devono portare altri documenti, i ragazzi cingalesi vanno via ridendo, così come erano venuti, e anche il ragazzo cinese sembra soddisfatto.

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