Un paese in pericolo

8 Aprile 2009

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Un paese in pericolo (Paolo Berdini – il manifesto 7 aprile 2009)

Sono crollati ospedali, edifici pubblici e scuole costruiti di recente. Dovevano rispettare rigorose norme antisismiche, ma il terremoto ha tragicamente svelato una realtà che viene sistematicamente occultata: siamo il paese delle regole scritte con solennità e violate con estrema facilità. Siamo il paese in cui le funzioni pubbliche di controllo sono state cancellate o messe nella condizione di non nuocere. Di fronte a questa cruda realtà, il «piano casa» della Presidenza del Consiglio liberalizzava ulteriormente ogni intervento edilizio che poteva iniziare attraverso una semplice denuncia di inizio attività, e cioè in modo che la pubblica amministrazione perdesse per sempre ogni residua possibilità di controllo. Dappertutto, in zona sismica o in zona di rischio idrogeologico. Sono poi crollate in ogni parte anche le case private. Antiche, della prima o della seconda metà del novecento. Segno evidente che anche esse sono state costruite senza gli accorgimenti che ogni paese civile richiede. Invece di avviare questo processo, il piano casa del governo autorizzava aumenti automatici di cubatura (fino al 20%) senza contemporaneamente costringere i proprietari a rendere più efficienti le strutture. Chiunque chiude un balcone o una veranda, pur aumentando i pesi che le case devono sopportare, non interviene sulle fondazioni o sulle strutture principali. È noto che questa anarchia e disorganicità è alla base di molti crolli e di molte vittime. La tragedia dell’Abruzzo mostra dunque di quale cinismo e arretratezza culturale fosse stato costruito il provvedimento tento reclamizzato da Berlusconi. Cinismo perché faceva balenare in ciascuno la possibilità di incrementare la proprietà senza tener conto dell’esistenza di equilibri più complessivi, senza cioè dover rispettare i beni comuni per eccellenza: le città. Arretratezza culturale perché il terremoto ha dimostrato ancora una volta che il vero problema del nostro paese è quello di avere i piedi di argilla. In un paese ad alto e diffuso rischio sismico, infrastrutture, servizi e abitazioni non sono in grado di resistere ai terremoti. Invece di agevolare la sistematica messa in sicurezza del territorio e del patrimonio edilizio, questo governo ha in mente una sola cultura: «aggiungere». Nuove grandi opere, a iniziare dal ponte sullo stretto e dalle centrali nucleari, nuove espansioni edilizie. Invece di consolidare l’enorme patrimonio edilizio esistente e rendere sicura la vita degli italiani, si continua con lo scellerato meccanismo della rendita speculativa. Stavolta la colpa non è di esclusiva responsabilità politica. È evidente in ogni settore un consenso esplicito ed entusiasta della Confindustria e della cosiddetta «classe dirigente». Quella, per intenderci, di cui fa parte il signor Claudio De Albertis, per molti anni presidente dell’Associazione dei costruttori italiani e oggi presidente di quelli milanesi. In un recentissimo dibattito nella rete televisiva di la Repubblica ha avuto il coraggio di affermare che in Italia mancano case popolari perché vengono costruite con troppa lungimiranza e durano troppo nel tempo. Ci dobbiamo abituare, ha aggiunto, a programmarne la vita in venti anni per poi rottamarle. Mentre tutti i paesi a economia avanzata si interrogano su come ricostruire su basi solide un futuro possibile dopo la crisi, da noi governo e imprenditori del mattone pensano esclusivamente a nuovi affari senza farsi carico degli interessi generali. Sono così miopi da non vedere che c’è invece un altro modo per rilanciare la macchina dell’edilizia. Basterebbero tre mosse. Prendere atto che il nostro patrimonio abitativo è fatiscente e lo Stato ha il dovere di favorirne la messa in sicurezza, attraverso norme e finanziamenti. E se ci fosse qualcuno che afferma che in questo modo si spendono soldi pubblici, si potrebbe rispondere che stiamo spendendoli per acquistare i fondi tossici delle banche. Perché non potrebbero essere utilizzati anche per non veder morire intere famiglie? Eppoi, gli interventi dentro una nuova concezione dell’edilizia favorirebbero la nascita di nuove industrie in grado di realizzare e gestire sistemi di risparmio energetico. In pochi anni i benefici complessivi supererebbero le spese di investimento iniziale: basta soltanto dare il colpo di grazia alla rendita immobiliare, come fanno in Europa. Secondo. Prendere atto che nell’ultimo decennio si è costruito troppo e che è venuto il momento di dire basta a ogni ulteriore consumo di suolo agricolo. Da qualche mese è nata su iniziativa del sindaco di Cassinetta di Lugagnano la rete «stop al consumo di territorio» e sono molti i primi cittadini che vogliono voltare pagina. La popolazione italiana non cresce più ed è economicamente molto più conveniente riqualificare l’esistente. Terzo. La definizione di un grande (stavolta sì) programma di messa in sicurezza degli edifici pubblici. Il volto dello stato si vede da come si presentano le scuole dell’obbligo. L’ottanta per cento di esse è fatiscente o non rispetta le norme di sicurezza.
Stesso discorso vale per gli ospedali e per gli altri servizi. Una grande opera di ricostruzione del volto dei luoghi pubblici e delle città, che sono gli elementi portanti della convivenza civile di ogni paese civile. E se qualcuno obiettasse spudoratamente che in questo modo si spendono soldi pubblici, basterebbe mostrargli i volti dei giovani che in Abruzzo hanno perso la vita soltanto perché l’ideologia liberista ha imposto in questi anni la distruzione di ogni funzione pubblica.

E un futuro (Pl.C.)

Le risposte alla crisi i lavoratori le hanno cercate al Circo Massimo a Roma sabato 4 di questo mese, dietro lo slogan “Futuro SI. Indietro No”, urlato da migliaia di lavoratori pensionati, precari e immigrati. I problemi e le richieste vertevano sul piano economico, sociale e fiscale del governo, che sembra lasciare scontenti 2,7 milioni di italiani secondo la CGIL, o solamente 200.000 nostri connazionali secondo il parere della Questura. Qualcosa non torna, sembrano pochini gli scontenti, dato che la disoccupazione nel nostro paese sta raggiungendo picchi d’allarme sociale. La manifestazione era composta da cinque cortei attraverso le strade di Roma, partiti dai tradizionali punti di incontro: Piazza della Repubblica, Piazza Ragusa, Piazzale dei Partigiani, Piazzale dei Navigatori e Piazzale delle Crociate. Uno è stato aperto dagli operai di Pomigliano d’Arco, che appena due mesi fa sono stati caricati a freddo dalla polizia mentre manifestavano contro la FIAT seduti sull’asfalto dell’A1 e con le mani alzate. La manifestazione è stata presentata da Massimo Wertmuller, e sul megapalco di 34 metri di larghezza, hanno preso la parola un operaio cassintegrato di Pomigliano D’Arco, una pensionata di Roma, una giovane docente precaria della Lombardia, uno studente, un immigrato ghanese residente in Emilia Romagna ed un medico dalla Sicilia. Intorno alle 12:30 Guglielmo Epifani ha tenuto il suo comizio conclusivo, dal quale emerge che il tema principale della manifestazione è la controversia con il governo e con le altre sigle sindacali, “perché la Cgil vuole guardare avanti, su come ricostruire un paese dopo la crisi. ‘Indietro no’ vuole dire tante cose: indietro no sui temi della Costituzione, sul tema dei diritti, sul tema di pensare ai lavoratori per ultimi. Vogliamo guardare avanti, ma per portare in questa idea di paese quei valori essenziali dei diritti e della coesione sociale”. L’Onda non ha lesinato neppure stavolta la sua presenza, centinaia di studenti tra universitari, medi e precari, partiti da piazzale Aldo Moro, violando nuovamente il divieto che ci era stato imposto alcune settimane fa dal protocollo anti-cortei. Hanno bloccato più volte le strade della città e si sono espressi contro il Ministero della pubblica Istruzione con un folto lancio di scarpe, evidenziando ancora una volta il rifiuto delle politiche del governo di gestione della crisi.

Elzioni Universitarie a Cagliari (Pl.C.)

Il 27 novembre le elezioni universitarie dell’Ateneo di Cagliari erano state bloccate e rinviate dal Tar in seguito ad un ricorso presentato dai candidati della Lista Ichnusa. Puntualmente l’agone elettorale tra gli universitari è stato fissato per l’uno e il due aprile 2009. Hanno votato 6.882 studenti, l’affluenza è stata del 19.17%, come al solito molto limitata, certamente al di sotto delle aspettative dopo mesi di mobilitazione studentesca su scala ormai europea.
Anche se gli studenti che non si sono presentati alle urne nutrono forti dubbi sull’efficacia degli Organismi che gestiscono l’Università, va sottolineato come dopo un periodo di netta predominanza di Comunione e Liberazione in tutte le facoltà, ci sia stata una chiara inversione di tendenza. Unica 2.0 ha vinto in tutti gli organi centrali, e in quasi tutte le facoltà, riuscendo ad ottenere tre posti su cinque. Ha superato per più di mille voti UxS e Lista Ichnusa nel Consiglio di Amministrazione con 2648 preferenze, al Senato Accademico con 2579 e al Senato Accademico allargato con 2984 voti. Si può dire che si tratta di un successo, seppure modesto, dopo le elezioni regionali, dopo l’approvazione della 133 e della 1387, vere e proprie macchine d’assedio contro l’istruzione pubblica; ora gli studenti possono solo sperare che i nuovi eletti ottemperino il loro ruolo in linea con le esigenze della maggioranza che li ha espressi, applicando almeno un minimo filtro alle conseguenze delle scelte governative. Queste elezioni si sono basate sulla speranza; non escludiamo neppure un’influenza di quel nuovo corso planetario interpretato da Obama che è stato recepito anche nella nostra Università. È importante tutto ciò anche per superare lo status quo, individualmente e socialmente; essendo stato un anno piuttosto vitale per l’intero Ateneo, si può sperare che la delega non spenga nuovamente qualsivoglia stimolo all’attività e alla partecipazione diretta.

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