La mia paura offesa

1 Gennaio 2008

V. V.

Guardo e ri-guardo questo foglio bianco provando a raccontare una storia, la mia storia. Eppure ogni volta che ci provo sento un blocco. Parte dallo stomaco una sensazione amara, come quando un pugno ti colpisce sul viso e senti sangue e lacrime scivolare nella gola. Perché scrivere la mia verità, i miei stati d’animo è un po’ come rivivere tutto ciò che è stato. Ed allora capisci come niente è superato, il passato non è stato ancora archiviato come tale. Eppure non sono stata picchiata, non sono stata stuprata; ma mi sento vittima di violenza. Così capita che la tua quotidianità venga modificata, lo scorrere del tuo tempo condizionato. Quando qualcuno, che dapprima non sai chi sia, inizia a minacciarti, telefonarti, seguirti. Qualcuno che tu non conosci o almeno non riconosci, ma che di te sa tanto. Ed allora inizi a guardarti le spalle, a camminare vicino al muro. E inspiegabilmente inizi a sentirti sola. Una solitudine che le persone speciali della tua vita non riescono a colmare. Nel mentre i mesi passano e la persecuzione continua, con forme e modi sempre più inquietanti. La mia storia è durata anni. In tutti questi anni non mi sono mai sentita protetta, ma anzi spesso giudicata. Giudicata anche perché vivevo da sola. Quante volte ho chiesto aiuto, ho supplicato aiuto. A quante persone e quante volte ho detto che avevo paura. Però leggevo negli occhi degli altri, nelle loro risposte “in fondo se sta capitando a te un motivo ci sarà”. Già, mica si perseguitano le persone senza motivo. Alla fine ci stavo credendo anche io, che qualche responsabilità avessi nell’esser finita in questo incubo. Venivo svegliata nel cuore della notte da questo folle che cercava di buttar giù la mia porta, dalle sue urla. Però nessuno sentiva niente. Nessuna porta si apriva per vedere se avevo bisogno di aiuto. Neanche le porte “istituzionali” si sono mai aperte. Sembravo una mitomane a fare una denuncia alla settimana. Ma la risposta era sempre la stessa, “ se non ti fa del male non si può fare niente”. Eppure, sebbene vacillando, continuavo tra minacce, urla, sveglie nel cuor della notte, a portare avanti la mia quotidianità. Non volevo dare a questo folle la soddisfazione di averla vinta. Anche se il consiglio dei più, forze dell’ordine comprese, era di allontanarmi. Lasciare la mia casa, l’ambiente dove avevo vissuto buona parte della mia vita. Ma questa era la resa massima che non volevo. In fondo se fuggi dal pericolo, dalla paura, potrai sempre dover fuggire da qualcuno, da qualcosa. La mia libertà era limitata, non potevo né uscire né rientrare a casa da sola, però non ho ceduto le armi, ma solo perché il destino mi ha aiutato ed ha allontanato questo folle da me. Ma è stato il destino, non è stato un intervento “di giustizia”. Non appena il pericolo si è allontanato fisicamente da me, la paura per tutto ciò che è stato è diventata più forte. Si è materializzata la paura degli altri, la difficoltà a fidarsi. Mi fa così rabbia ancora oggi che questa storia è archiviata da alcuni anni, sentire forte la paura. Paura di tornare a casa sola la notte, paura di esser seguita, e tante altre paure irrazionali forse, ma reali e presenti. Ancora oggi non riesco a capire come possa esser che per esser difesi, protetti, sia necessario subire violenza fisica. E ancora oggi durante i processi il senso di colpa e la solitudine non mi abbandonano. C’è sempre un giudice che sottovaluta, che con fare paternalistico non accoglie la mia paura, che non capisce che ciò che è stato è stata una violenza, anche se senza graffi, che mi colpevolizza perché rifiuto il perdono.
…Anche questa è violenza.

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