Una forza lavoro invisibile

16 Maggio 2012

Roberto Ciccarelli

La riforma del “mercato del lavoro” prepara un futuro di indigenza per almeno 5 milioni di lavoratori indipendenti, autonomi e precari. Il silenzio imbarazzato che sta accompagnando questo provvedimento, dopo le iniziali fiammate su un aspetto in fondo secondario (l’art. 18), è lo specchio della realtà in cui il Quinto Stato vive da almeno vent’anni: un terzo della forza-lavoro attiva in Italia viene considerata dai governi, come dalle parti sociali (sindacati e imprese), come cittadini dimezzati, vale a dire come bancomat da cui ritirare le risorse per pagare gli ammortizzatori sociali di altre categorie di lavoratori. L’Aspi, ad esempio, sarà finanziata con l’aumento al 33% dell’aliquota previdenziale degli autonomi iscritti alla gestione separata dell’Inps.
Ma all’Aspi – che è il vecchio sussidio di disoccupazione rinverdito in un acronimo tragicomico – potrà accedere solo un lavoratore indipendente su 10. E non si può certo dire che questa assicurazione sociale rimpinguerà i bilanci dei dipendenti disoccupati o in mobilità. Rispetto al vecchio sussidio la durata è stata ridotta a 12 mesi e la platea dei beneficiari è stata ristretta.
E il Ddl Fornero non interviene sui servizi per l’impiego che in altri sistemi europei del Welfare (ad esempio nella tanto ammirata – dal governo Monti – Germania) hanno un personale 4 volte superiore a quello italiano e garantiscono un livello medio di prestazioni del tutto sconosciuto in Italia.
Questi e altri aspetti della vita concreta, e dell’economia materiale, sono tradizionalmente sconosciuti – o, per dire meglio, invisi – al legislatore italiano che dal 1997 ha riformato la legislazione sul lavoro con l’obiettivo di creare una popolazione di apolidi senza diritti (previdenziali, assicurativi, sociali) il cui unico ruolo è di finanziare con il proprio lavoro vivo i bilanci dell’Inps.
Una forza lavoro invisibile, ma tendenzialmente maggioritaria, che si è sviluppata impetuosamente nei luoghi e nelle filiere del terziario avanzato, e non è garantita né dagli ordini professionali, né dal contratto nazionale del lavoro.
La mancanza di una forma di rappresentanza sindacale o politica, oltre che della rappresentazione sociale della condizione del Quinto Stato, autorizzano tanto gli interventi unilaterali e irragionevoli come quelli contenuti nel Ddl lavoro, quanto la storica indifferenza rispetto al destino del lavoro indipendente in Italia. Lo confermano le “contro-misure” proposte dai relatori del decreto al Senato, Treu e Castro.
Uno dei loro emendamenti propone il “salario minimo” per i co.co.pro., cioè per 700 mila persone (su oltre 5 milioni) con un reddito annuo medio di 10 mila euro. Per determinare l’importo di questo salario si sta pensando ad una remunerazione pari, forse, a 6 mila euro di sussidio.
Ma questa misura avrà carattere sperimentale, partirà nel 2014 (quindi con il nuovo governo) e durerà solo tre anni.
L’Aspi e il salario minimo per i co.co.pro confermano l’intenzione di non garantire agli indipendenti una forma di tutela universale per i periodi di non lavoro. Il rischio è stato denunciato più volte dal ministro Fornero: la “concessione” (perchè il legislatore italiano ragiona sempre in termini paternalistici) di un reddito, o comunque di un moderno sistema delle garanzie sociali, spingerebbe all’ozio tutti coloro che non sono costretti al lavoro da un regolare contratto da dipendente. Finirebbero per mangiare pastasciutta al sole. Parole di ministro della Repubblica. L’origine di questa sfiducia rispetto al lavoro indipendente risale al tempo in cui i regnanti europei condannavano la mobilità tra campagna e città e quella interprofessionale tra le corporazioni artigiane nel medioevo. In Italia, poi, l’idea stessa di un’indipendenza sul lavoro, e di un’autonomia nella società, ha da sempre suscitato un sospetto nelle “classi dirigenti” abituati al disprezzo del “popolo” lazzarone, fannullone e assetato di “lavoro”.
C’è però una novità che oggi ci porta a considerare il Quinto Stato in un’altra luce. A dispetto di una crisi che porterà senz’altro a nuove povertà, e davanti alla manifesta impotenza del governo di intervenire su questa tendenza, bisogna affidarsi al desiderio di indipendenza e autonomia che caratterizza le “nuove” professioni (è la loro cifra costituente).
E’ questo desiderio che bisogna tutelare e premiare perché in un tempo speriamo ravvicinatissimo sia possibile costruire un nuovo modello di cittadinanza.
Nessuno aiuterà il Quinto Stato a realizzarlo.
Dovrà essere il Quinto Stato a trovare argomenti e pratiche per imporre un’idea di coalizione sociale e politica capace di smentire la certezza della sua esclusione da questo mondo.

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