Unità e trasformazione dello Stato nazionale italiano

16 Dicembre 2019
[Gianfranco Sabattini]

Nel saggio “L’Unità d’Italia tra Europa e trasformazione degli Stati nazionali. Una riflessione storica” (pubblicato in “Quaderni rassegna sindacale. Lavori”, n. 1/2019), Adolfo Pepe, direttore della Fondazione Giuseppe Di Vittorio e docente presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Teramo, svolge un’interessante analisi sull’impatto che i valori risorgimentali hanno avuto sulla fondazione dello Stato nazionale italiano, sulla loro legittimazione popolare nel corso della Resistenza (secondo Risorgimento) e sul loro “smarrimento” nella fase politica attuale.

L’interesse dell’analisi di Pepe sta soprattutto nella denuncia del fatto che il momento politico attualmente attraversato dal Paese (in merito, ad esempio, al problema dell’”autonomia differenziata” pretesa dalle regioni più ricche) disveli il “tradimento” dei valori risorgimentali; tradimento che, secondo Pepe, sembra confermare il consolidamento di una sorta di “aporia strutturale”, che caratterizzerebbe le relazioni tra “lo Stato nazionale italiano, l’Unione Europea e il sistema degli altri Stati europei”.

Com’è noto, nella prospettiva della più autentica interpretazione dei valori della rivoluzione nazionale italiana, quella mazziniana, il principio di nazionalità, posto a suo fondamento, non riposava su fattori naturalistici (il sangue, il territorio, la lingua ed altri ancora), ma su fattori culturali, nel senso che la nazionalità di un popolo (organizzato in uno Stato) era essenzialmente la coscienza comune che giustificava la convivenza dei suoi componenti. Il sangue, il territorio e la lingua erano infatti, per Mazzini, solo la forma visibile della Patria; l’anima di questa “[palpitava] nella coscienza, in un tutto organico per unità di fine e facoltà”.

Nella tradizione risorgimentale, il principio di nazionalità, proprio per via della sua natura culturale, si accompagnava con altri due principi: quello della libertà politica di tutti i componenti la nazione (unita all’indipendenza da ogni forma di condizionamento esterno) ed il “principio europeo”, o sopranazionale, secondo il quale la nazione non era avvertita come valore esclusivo, bensì come un mezzo che consentiva agli uomini di accordarsi sul come vivere insieme agli altri, anche se “diversi” (in fatto di sangue, di origine territoriale o di lingua).

Questo modo di concepire la nazione, come valore non esclusivo ma indissolubile, faceva del principio europeo (o sopranazionale) il pilastro delle singole patrie, la cui missione, nella prospettiva mazziniana, era quella di trasformarsi in “patria delle patrie” nello sviluppo dell’umanità. Il principio di nazione, strettamente connesso con la libertà e l’umanità, è stato stravolto dall’affermarsi degli egoismi nazionali e regionali che, capovolgendo l’idea di missione educatrice assegnata alle singole patrie, ha rimesso in gioco l’indissolubilità degli Stati nazionali e il loro rapporto col principio europeo (o sopranazionale).

Ciò ha comportato che, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, il rapporto che lo Stato nazionale italiano ha instaurato con gli altri Paesi europei aderenti al progetto di unificazione politica del Vecchio Continente, risultasse viziato dall’aporia strutturale alla quale accenna Pepe nella sua analisi; aporia consistente nel fatto che il processo di integrazione sopranazionale risultasse aperto ad una duplice possibilità che, per quanto entrambe politicamente valide, una era però in aperta contraddizione con i valori fondativi della patria unitaria italiana.

Infatti, il processo di integrazione ha aperto all’Italia un doppio scenario: da una parte, esso ha reso possibile immaginare che lo Stato-nazione, considerato pilastro insostituibile dell’Unione Europea, continuasse ad essere garantito nella sua organizzazione politica e territoriale proprio dalle istituzioni comunitarie; dall’altra parte, che fosse possibile immaginare uno scenario post-nazionale alternativo, con una composizione dello spazio comunitario per aree geografiche regionali, che però sarebbe valso a rimuovere dalla coscienza collettiva di ogni nazione il retaggio culturale alla base della propria esistenza.

Con riferimento all’Italia, questo secondo scenario implicava la rimozione dalla coscienza nazionale, non solo dei valori che avevano dato sostanza al nostro Risorgimento, ma anche di quelli affermatisi con il secondo Risorgimento (quello della Resistenza), fondativi della Repubblica; nonostante avesse posto rimedio, quest’ultimo, ai “limiti elitari” dei valori del primo, rendendoli “più veri”, perché – come sottolinea Pepe – “opera del popolo e non di una minoranza”. Si tratta di una affermazione dirimente che destituisce di ogni fondamento le pretese separatiste e secessioniste di qualsiasi natura, per lo più fondate sempre sui pretesi “torti” che il primo Risorgimento, a causa del proprio carattere elitario, sarebbe valso a procurare alle popolazioni degli Stati pre-unitari.

In realtà, la Resistenza non è stata una fase isolata della storia del popolo italiano del tutto disconnessa da quanto era stato messo in evidenza, già a partire dallo stesso svolgersi del processo di unificazione, e soprattutto nel corso dei decenni successivi alla raggiunta Unità.

Nel suo saggio, Pepe rileva come, fra le forze patriottiche pre-unitarie e quelle post-unitarie, abbia preso lentamente corpo la consapevolezza della necessità che all’unità politico-territoriale del nuovo Stato, sorto nel 1861, facesse seguito anche quella sociale; proprio quanto le personalità più sensibili dell’epopea risorgimentale (Giuseppe Mazzini, Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari) non erano riuscite a fare accogliere dalla prevalente azione politica e diplomatica della monarchia sabauda.

Pepe considera inoltre la “rigenerazione morale del popolo italiano”, compiutasi col secondo Risorgimento, intrinsecamente limitata, a causa della profonda diversità ideologica dei partiti protagonisti della Resistenza e del loro specifico modo di concepire la nazione; fatto, ques’ultimo, che non sarà estraneo al riproporsi, negli anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale, di antiche istanze separatiste, confermando così, grazie ai limiti della rigenerazione morale del popolo italiano compiutasi con il secondo Risorgimento, il tema della fragilità dell’unità dello Stato nazionale italiano.

Per rendersi conto del perché abbia potuto riproporsi questo stato di fragilità dell’unità nazionale dell’Italia, è interessante seguire la narrazione che Pepe effettua riguardo al modo in cui le classi dirigenti post-unitarie hanno cercato di accreditare il valore positivo dell’unità dello Stato italiano. Seguendo le grandi celebrazioni cinquantennali della fondazione dello Stato nazionale, Pepe afferma che, in quelle svoltesi nel 1911 e nel 1961, le classi dirigenti hanno, tutte indistintamente, celebrato l’unità nazionale “accreditandola come la più genuina interpretazione dei valori risorgimentali”; l’unità d’intenti non è servita tuttavia a conciliare “le differenze politiche ed ideali del Risorgimento”.

Le classi popolari della nazione non si sono riconosciute “nella patria comune” che i liberali cercavano di edificare”; acanto ai socialisti, ai cattolici e alla parte del mondo repubblicano più fedele all’insegnamento mazziniano, è nata e si è affermata anche una forza sociale portatrice di un’altra critica radicale, sulla base di un “nazionalismo nuovo, aggressivo e violento che [ha visto] nello Stato liberale un sistema di potere corrotto, privo di slanci ideali e coerenza morale, che non [interpretava] affatto ma piuttosto [sviliva] l’energia e le virtù nazionali esplose durante il Risorgimento”. Tutte queste forze, si sono contrapposte non certo “con l’intento di disfare l’edificio unitario”; esse si proponevano in realtà di “occuparlo e trasformarlo secondo il proprio progetto di Stato e ideale di nazione”.

Secondo i socialisti, lo Stato unitario era una conquista irrinunciabile per favorire l’”svolgersi della storia” e, malgrado il loro internazionalismo, l’unificazione politica doveva essere salvaguardata perché “la conquista della patria borghese [era] la premessa necessaria della patria proletaria”. I cattolici, dal canto loro, contrapponevano al “patriottismo laico e liberale un patriottismo cattolico”; l’oggetto della loro critica non era lo Stato unitario di per sé, ma il “tentativo della classe dirigente liberale di recidere le radici cristiane garanti della concordia del Paese”. Il discorso dei cattolici era reso ancora più radicale dalle correnti più genuinamente repubblicane, le quali, oltre a considerare lo Stato nazionale realizzato artefice dell’unità della nazione, ritenevano che esso fosse anche l’emblema del tradimento, per aver escluso “l’anima della nazione” (le classi popolari) dalla conduzione dello Stato. C’erano, infine. i nazionalisti aggressivi e violenti, che sebbene considerassero positivo il valore dell’unità politica del Paese, dopo la Grande Guerra hanno preso il sopravvento, dando origine alla dinamiche che hanno condotto al secondo conflitto mondiale, esponendo così la stessa unità del Paese al rischio di una sua irreversibile incrinatura.

Finita la guerra, tutte le forze che hanno animato con la Resistenza il secondo Risorgimento sono state sostanzialmente unite – osserva Pepe – “nel fronteggiare l’urgente problema della difesa dell’unità politica e territoriale dell’Italia, nel tentativo di rigenerare l’idea di nazione dalla contaminazione fascista”; ovviamente, tali forze erano portatrici di “progetti politici e interpretazioni culturali molto diversi, ma con l’affermazione comune di un’idea di nazione volontaristica rispetto a quella naturalistica definitivamente compromessa dall’esperienza fascista”. La diversità dei progetti politici e delle interpretazioni culturali della Resistenza erano, però, come si detto, profondamente lontane sul piano ideologico; per questo motivo, le forze che avevano animato la Resistenza hanno reso necessaria, come Pepe afferma, citando lo storico Emilio Gentile, una concezione della nazione come “patrimonio di tregua”, fondato sui valori della Resistenza. Si trattava, però, di una tregua tra partiti (portatori di principi, ideali e valori diversi) divenuti alleati “in nome della patria, per far fronte comune contro un nemico comune”.

Una volta sconfitto quest’ultimo (sempre secondo le parole di Gentile), la necessità della tregua è venuta meno, per cui sono riemerse “le profonde diversità ideologiche e il patrimonio della Resistenza [si è frantumato] con la fine dell’unità dei partiti antifascisti, ciascuno dei quali [ha preteso] di essere l’incarnazione della vera Italia, contribuendo in tal modo ad acuire le divisione degli italiani, lacerando ogni residuo vincolo nazionale comune”.

E’ riapparsa così, tra la fine del conflitto mondiale e la celebrazione del centenario dell’Unità, nel 1961, la divisione nella coscienza politica degli Italiani sulle “diverse Italie”; divisione che aveva dominato il dibattito politico sulla natura del processo risorgimentale dei decenni pre- e post-unitari. Secondo Pepe, ciò sarebbe avvenuto “sempre all’interno di un presupposto condiviso e mai messo in discussione: il valore fondamentale dell’unità politica e territoriali del paese”.

Al contrario, si ha motivo di credere che gli anni compresi tra il 1961 e le celebrazione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, nel 2011, proprio a causa della “frantumazione” del patrimonio comune della Resistenza (determinata dalla diversità ideologica dei partiti post-resitenziali) si sia formata, fuori dai dubbi avanzati da Pepe, una classe dirigente che ha completamente smarrito il senso di appartenenza alla nazione italiana.

Per la prima volta, infatti, sulla scena politica italiana faceva irruzione (andando ad aggiungersi ai preesistenti movimenti separatisti regionali) un partito politico, il Movimento della Lega Nord, che ha da subito manifestato “la voglia di recidere i legami di lungo periodo con la storia che [affondava] le sue radici nel Risorgimento; lo Stato nazionale unitario italiano “da valore indiscutibile, da indiscutibile strumento di progresso” [ha finito] con l’essere interpretato “come una soluzione accidentale e provvisoria” di problemi necessitanti di un “diverso orizzonte valoriale e di una diversa organizzazione territoriale”.

La Lega Nord, divenuta perito di governo, ha continuato a parlare di secessione e di indipendenza della Padania, e non essendo riuscita in questo intento per vie democratiche, non ha esitato, scarsamente contrastata dagli altri partiti “nazionali” di diverso orientamento politico, a vestire la “pelle di agnello” di “partito nazionale”; quindi, conservando l’”anima originaria” e strumentalizzando il disordine economico e politico seguito agli esiti negativi della Grande recessione del 2007-2008, la Lega ha irrobustito la sua rappresentanza in seno alle istituzioni politiche italiane.

In tal modo, il nuovo partito, mosso da un’ideologia che fa della nazione un sentimento naturalistico legato all’identità di sangue e di origine territoriale di tutti coloro che la compongono, è divenuto la forza principale a sostegno di coloro che vogliono riproporre la secessione sotto forma di autonomia finanziaria differenziata per le regioni più ricche del Paese, a danno di tutte le altre regioni. Se questo disegno dovesse avere successo, esso avrebbe l’effetto di riportare il Paese alla fase pre-unitaria, cancellando dalla memoria storica degli italiani, non solo i valori inclusivi del primo Risorgimento e la loro legittimazione dal basso compiutasi con la Resistenza, ma anche il principio europeo, così come lo intendeva Mazzini, che affermava di considerare la nazione, non come valore esclusivo, ma come mezzo per il vivere insieme di popoli diversi, indipendentemente dalla loro cultura, dalla loro etnia e dalla loro origine territoriale.

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