Vantaggi e pericoli dell’integrazione delle diversità in un’Europa a più velocità

16 Ottobre 2017
Gianfranco Sabattini

L’ipotesi di un’Europa a più velocità non è nuova; ora, di fronte al grave processo di involuzione che da anni sta subendo la realizzazione del “progetto europeo”, l’ipotesi viene riproposta nella forma di una “pluralità di cooperazioni rinforzate”. Ciò, a parere di Massimo D’Alema, in “Un salto di qualità” (Italianieuropi, n. 3/2017), prefigurerebbe una “via di uscita” dal problema delle differenze esistenti tra i diversi Paesi membri sul piano economico e sociale, nell’empasse che connota al presente il processo di unificazione politica dell’Europa. Per la realizzazione dell’ipotesi – afferma D’Alema – sarebbe però essenziale che il salto di qualità “abbia una guida forte”, che egli identifica in “una rinnovata collaborazione tra Germania e Francia”.

Mai, nel corso del dopoguerra, sostiene il presidente della Fondazione Italianieuropei, si è verificata una crisi cosi profonda; la crisi risulta particolarmente grave anche perché, dopo l’elezione alla presidenza degli USA di Donald Trump, sono peggiorate le relazioni tra le due sponde dell’Atlantico, cui si aggiunge “il nazionalismo assertivo di Putin e la rinnovata politica di potenza della Russia”, con lo scopo di indebolire e disgregare l’Unione Europea, attraverso l’aperto sostegno dei “movimenti nazionaliste populisti nel Vecchio Continente”. Si tratta, a parere di D’Alema, di “uno scenario allarmante”, inserito in un “quadro internazionale in cui nazionalismo, protezionismo e politica di potenza tendono confusamente a soppiantare il tentativo di realizzare una governance multilaterale e condivisa della globalizzazione”.

A parte l’idea, avanzata da D’Alema, che l’Europa possa essere aiutata, sempre nel quadro di una logica di potenza, dalla crescente forza economica della Cina, egli tuttavia sottolinea l’urgenza che i Paesi del Vecchio Continente riconoscano finalmente le proprie responsabilità riguardo a quanto sin qui è stato fatto relativamente al processo di unificazione politica; quindi, proprio per questo, essi abbiano la consapevolezza che, al presente, sono privi di “una visione strategica comune” su come l’Europa possa opporsi alla nuova situazione, venutasi a creare con le conseguenze sul piano politico, oltre che economico, della Grande Recessione e del peggioramento delle relazioni internazionali.

Il dibattito che si è aperto sulla situazione esistente in Europa e sulla prospettiva di un suo superamento sarebbe portatore di “accenti nuovi e proposte coraggiose”, quali quelle del neo-presidente francese, Emmanuel Macron; secondo D’Alema, pur potendosi avere riserve sulla impostazione della politica economica e sociale di Macron, resterebbe però il fatto che egli rappresenterebbe “senza dubbio un salto di qualità europeista rispetto al tradizionale nazionalismo francese”. Al riguardo, viene subito da osservare, che D’Alema deve aver formulato questo giudizio sul conto del neo-presidente francese prima del suo insediamento all’Eliseo, perché l’attivismo di Macron, non appena sostituito il predecessore, ha subito dato modo di constatare quanto poca sia la distanza che lo separa dal tradizionale nazionalismo del suo Paese.

A parere di D’Alema, il salto di qualità richiesto ai Paesi europei, in presenza del quadro politico creatosi con l’esito delle recenti elezioni francesi, dovrebbe essere compiuto sul terreno dell’integrazione politica. A tal fine, però, è evidente, per il presidente della Fondazione Italianieuropei, che “sino a quando un gruppo di Paesi fondamentali non deciderà di porre effettivamente in comune la politica estera e di difesa, realizzando al tempo stesso uno stretto coordinamento e una forte solidarietà in materia dei flussi dei rifugiati e degli immigrati, l’Europa resterà una potenza dimezzata […], in particolare negli scenari di crisi dove sono in gioco i nostri interessi vitali”. Questa posizione di stallo, a parere di D’Alema, imporrebbe una “forma di collaborazione rafforzata” che non si contrapponga alle istituzioni europee esistenti, ma al contrario dia loro “maggior forza e autorevolezza”.

Però, il salto di qualità nella politica europeista non appare possibile senza che preventivamente sia compiuta una più forte integrazione economica tra i Paesi membri e senza che si inaugurino nuove scelte orientate a realizzare in essi la “piena occupazione”, la “riduzione delle disuguaglianze” e una “maggiore inclusione sociale”; ma, soprattutto, senza che sia compiuto quel salto di qualità, il processo d’integrazione non appare votato al successo, se si trascura che la ripresa economica europea, dopo la Grande Recessione, risulta moderata e distribuita in modo diseguale tra i “diversi Paesi dell’Unione” e tale da minare gravemente la stessa coesione europea, a causa della persistente presenza dei movimenti populisti. Tutto ciò renderebbe evidente che la ripresa del processo europeista potrà essere supportata, non da un ulteriore compressione della domanda interna, ma da una “politica espansiva che punti a una redistribuzione più equa delle risorse e a un forte incremento degli investimenti e dei consumi interni”.

D’Alema ritiene che, per avere successo, queste scelte dovrebbero essere accompagnate da un nuovo programma europeo in grado di affrontare alcuni temi, che egli considera di fondamentale importanza: il completamento dell’unione bancaria, l’aumento del budget dell’Unione, l’armonizzazione del trattamento fiscale dei redditi di capitale e, soprattutto, la creazione di un fondo europeo per l’abbattimento dei debiti nazionali; tutto ciò, al fine di favorire la diffusione, almeno tra i Paesi dell’Eurozona, di una maggior solidarietà e un più forte sostegno alla crescita e alla giustizia sociale.

Il nuovo programma europeo sarà, però, efficace, solo se si riuscirà ad “avviare una pluralità di cooperazioni rafforzate”, da svilupparsi sulla base di diversi raggruppamenti di Paesi. Perché tale programma possa essere inaugurato, occorrerà che la sua attuazione abbia una “guida forte”, da realizzarsi attraverso una “rinnovata collaborazione tra la Germania e la Francia”. D’Alema conclude affermando di non sottovalutare il ruolo che potranno svolgere nell’attuazione del nuovo programma europeo gli altri Paesi fondatori, fra i quali l’Italia, sulla cui classe dirigente però, egli nutre il dubbio che sia all’altezza delle sfide che l’Europa deve affrontare.

Tuttavia, considerata la mancanza di alternative all’unificazione politica del Vecchio Continente, se si crede ancora nel progetto europeo, occorre affrontare le sfide mediante un “riformismo coraggioso e radicale, pena il rischio che prevalgano la sfiducia, la rabbia, lo smarrimento e la chiusura nazionalistica”. Sin qui D’Alema; ma la sua proposta di un salto di qualità nella politica europeistica, fondato su una “pluralità di cooperazioni rinforzate” è desiderabile? E, quel che più conta, è priva di rischi?

Agli interrogativi, risponde Pasquale Ferrara, diplomatico e professore di Diplomazia e negoziato all’Università LUISS Guido Carli; egli, sullo stesso n. 3/2017 di Italianieuropei, in “Integrare le differenze. Incognite e possibilità dell’Europa plurale”, afferma che, nelle condizioni attuali dell’Unione, l’avvio di una pluralità di cooperazioni differenziate può implicare per i Paesi membri solo un “destino strutturalmente disgiunto”. A sessant’anni “dalla firma dei Trattati di Roma, è difficile stabilire se l’Unione Europea sia alla ricerca di un elisir di lunga vita o, più modestamente, di un kit di sopravvivenza”. Perché tanto scetticismo?

Ferrara sembra non avere dubbi, osservando che i problemi davanti ai quali si trova l’Europa attuale sono gli stessi che essa si sta trascinando irrisolti da anni, quali principalmente: la questione del ruolo che l’Europa deve svolgere per sostenere la crescita economica, soprattutto dei Paesi dell’Eurozona; quindi, i nodi dell’immigrazione, della sicurezza e della difesa comune, per meglio affrontare la turbolenza nelle relazioni internazionali. Si tratta di problemi, la cui soluzione avrebbe dovuto rinsaldare – sostiene Ferrara – la coesione interna tra i Paesi che compongono l’Unione, mentre invece “hanno sinora prevalso le scorciatoie sovraniste”.

Data la mancata soluzione di tutti questi problemi, non è sicuro che la riproposizione del “metodo del Direttorio” possa avere successo, in quanto la “stabilità interna” nei rapporti tra gli Stati membri dell’Unione sembra non suscitare più gli stessi entusiasmi di un tempo; per quegli Stati che dovessero essere portatori delle idee di D’Alema, ciò significherebbe che – come afferma Ferrara – per affrontare la crisi attuale del progetto europeo non basti un “processo di manutenzione ordinaria”, ma occorra una profonda ristrutturazione dell’Unione, da realizzarsi attraverso la creazione di una pluralità di cooperazioni rafforzate per realizzare una “integrazione differenziata” dei Paesi membri, che tenga conto delle potenzialità economiche di ognuno di essi, nonché delle loro particolari condizioni strutturali.

A ben riflettere, l’integrazione differenziata, da realizzarsi attraverso una pluralità di cooperazioni rafforzate, altro non è, afferma Ferrara, che “un ossimoro che segna un cambiamento radicale nella ‘narrativa’ sul processo politico europeo”; la parola integrazione, nell’ortodossia del linguaggio europeista, ha espresso sinora l’obiettivo comune che l’Europa unita doveva raggiungere, ovvero una generalizzata condivisione di sovranità. Se ora l’Europa smarrisce questo obiettivo e l’integrazione si differenzia, allora le “sue finalità non sono più necessariamente convergenti”; ciò potrà essere anche una necessità storica e politica, ma, a parere di Ferrara, non ci si potrà rallegrare di “questo esito dalle conseguenze incerte”. Se l’Europa scegliesse di perseguire un’integrazione differenziata, l’Unione si avvierebbe verso una “differenziazione integrata”; come dire che andrebbe a realizzare un’”unità nella diversità”, e con ciò, sempre secondo Ferrara, la diversità verrebbe “inserita in modo strutturale nella dinamica europea”.

La proposta di D’Alema non nasce dal nulla; essa, in realtà, non è che una riproposizione di ipotesi già avanzate nel passato, come ad esempio, quella che prospettava la creazione di un’”Europa a più velocità”, implicante una specifica forma di integrazione differenziata per il perseguimento di obiettivi comuni, guidato da un nucleo di stati forti, nell’assunto che quelli deboli potevano essere opportunamente trainati; oppure, come quella che prefigurava un’”Europa à la carte”, dove l’opzione per la forma dell’integrazione differenziata era lasciata alla libera discrezionalità dei singoli Paesi di scegliere, “come da un menù“, a quali politiche partecipare, “condividendo al contempo solo un numero minimo di obiettivi comuni”.

Nelle condizioni in cui versa attualmente l’Unione Europea, il “disallineamento” sarebbe amplificato dal fatto che con esso aumenterebbe la “complessità di una costruzione istituzionale e normativa che già appare scarsamente intelligibile, senza parlare dei problemi di governance […] e le tensioni che inevitabilmente si porrebbero”.

In conclusione, secondo Ferrara, l’integrazione differenziata, pur contribuendo a rendere più “flessibile” la governance dell’Unione, sarebbe ben lontana dal garantire la possibile soluzione dei tanti problemi che la stessa Unione si è lasciata alle spalle insoluti; una “repubblica di repubbliche” – afferma Ferrara – è “una repubblica composita”, esprimente un processo non un possibile risultato finale; si tratterebbe tra l’altro, di un processo caratterizzato dalla presenza di una pluralità di centri di poteri, che non consentirebbero di affrontare congiuntamente le questioni politiche ereditate e quelle che nel frattempo stanno emergendo. Questioni, queste che sarebbero destinate a conservare la loro natura di “forze centrifughe, […] quale che sia l’ingegneria istituzionale escogitata per superare lo stallo”.

A ciò si deve aggiungere che la direzione dell’ipotetica “pluralità di cooperazioni rinforzate”, esercitata col metodo del Direttorio espresso dalla Germania e dalla Francia, non farebbe che rafforzare le spinte centrifughe; infatti, entrambi i supposti Paesi forti dell’Unione non hanno mai manifestato, soprattutto da Maastricht in poi, di volere realmente operare per un’effettiva convergenza delle posizioni economiche dei Paesi membri dell’Eurozona: la Francia, per l’eccesso di nazionalismo che ha sempre caratterizzato la sua presenza all’interno dell’Unione; la Germania, perché pervasa dal convincimento che la stabilità dei prezzi debba fare premio su ogni altra urgenza della stessa Unione.

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