Vite quotidiane. Intervista a Carla Collu

1 Dicembre 2013
Giacomo Ceruti - Donne al Lavoro 1720
Giacinto Bullai

Si ritiene fortunata, Carla Collu: “Ho un fratello e una sorella, non sono sola, ho due braccia e due gambe”. Trentasette anni, risata contagiosa, occhi verdi profondi, parlata e ironia cagliaritana, grande dignità e una storia alle spalle che non è proprio rose e fiori. L’emigrazione, lo sfruttamento delle agenzie interinali, le chiamate anche per una sola settimana, la ricerca complicata di un lavoro degno di questo nome, la necessità di crescere troppo in fretta. “Sono sempre stata battagliera, sin dalla scuola quando facevo la rappresentante degli studenti. Le sfide non mi spaventano”. Carla è una ragazza esile, veloce, ruvida e coraggiosa e non ha molte affinità con lagne e vittimismo, “malattie molte diffuse soprattutto tra i miei coetanei”. Decide di raccontarsi con immediatezza e semplicità.

foto BullaiCarla, da dove iniziamo?
“Dai miei 13 anni, quando ho perso mamma per un male incurabile”.

Il papà?
“Mai conosciuto, se n’è andato quando ero in fasce”.

Chi si è preso cura di lei?
“Mia sorella più grande di 12 anni e mio fratello maggiore che non smetterò mai di ringraziare. Mi hanno fatta studiare – mi sono diplomata in Ragioneria – e mi hanno dato un tetto dove vivere”.

Dopo la scuola non c’era tempo da perdere, immagino
“Subito alla ricerca del lavoro, da sola, con la mia faccia e il mio curriculum. A Cagliari ho iniziato nei call-center ma ho anche fatto l’aiutante in una pizzeria”.

Intravedeva prospettive?
“Nessuna. E dato che non avevo alternative, sono partita”.

Dove ha deciso di emigrare?
“In Lombardia, a Castiglione delle Stiviere, avevo 26 anni. Ho raggiunto, nonostante la sua contrarietà, mio fratello e altri amici”.

Come è stato l’impatto con la nuova realtà?
“Duro. Abitavo in un quartiere dove alle sette di sera non c’era più anima viva. Uno dei pochi svaghi erano i centri commerciali che io odio. Non ero abituata a questi ritmi, nelle strade di Villanova, a Cagliari, era tutto diverso.”.

Ha trovato subito lavoro?
“Alle condizioni delle agenzie interinali, ovviamente. Ho iniziato in una fabbrica di rubinetti, assemblavo i pezzi per otto ore al giorno. La mattina, dato che non avevo macchina, chiedevo un passaggio a mio fratello prima del suo turno di lavoro. Il risultato era che arrivavo ai cancelli prima del guardiano, alle 5, con il buio pesto e un freddo da morire”.

Com’erano i rapporti con i suoi colleghi?
“Praticamente inesistenti. Non parlavo con nessuno anche perché, inutile negarlo, ero circondata da razzisti. Ero costretta a stare in disparte. Le lascio immaginare le solite battutacce sui sardi sottosviluppati”.

Come ha reagito?
“Non bene, non vedevo l’ora di tornare a casa, non ne volevo più sapere”.

Ha gettato la spugna?
“No. Ho continuato ed è arrivato il momento della fabbrica dolciaria, sempre tramite agenzia: una settimana. Dopodiché mi hanno chiamata in uno stabilimento di tinture per capelli, un mese, e a produrre calze e biancheria, un altro mese. Ho lavorato anche alle Poste, portalettere: due mesi. Ma in questo caso sono stata sfortunata”.

Cioè?
“Il terzo giorno sono uscita fuori strada con il motorino dell’ufficio. Finisco in ospedale  e mi vengono a trovare i poliziotti che mi notificano una multa: ‘Lei circolava con il bauletto troppo pesante’, mi dicono. ‘Ma come’, rispondo, ‘il bauletto delle lettere? Non l’ho mica riempito io’”.

La accusavano di non aver rispettato i limiti di carico?
“Esatto. Senza tener conto che quei bauletti zeppi di lettere da consegnare li preparava direttamente l’ufficio. Comunque, magra consolazione, la stessa identica disavventura è capitata alla postina che mi ha rimpiazzato”.

A questo punto?
“Ricomincia la giostra delle chiamate dall’agenzia internale. Due settimane a Mantova per fare le pulizie al ministero delle Finanze, un mese a riempire bottiglie di detersivi. In questo caso però mi hanno rinnovato il contratto per un altro mese sino a collezionare quasi un anno di lavoro: imballavo, caricavo i pallet, un impegno molto faticoso”.

Insomma, un bel tour tra catene di montaggio
“Ho collezionato decine di chiamate. Poi la crisi ha iniziato a farsi sentire anche al nord, le agenzie dovevano assorbire gli operai in mobilità, non c’era più spazio per me. Quindi decido di rientrare in Sardegna. Era il 2004”.

Cosa l’aspettava nell’isola?
“Il nulla. Ho dovuto bussare ancora una volta da mia sorella, madre di cinque figli. Ho attraversato un periodo molto difficile. Mi sono trovata perfino senza una casa dove stare”.

Come ha fatto a riemergere?
“Intanto grazie agli insegnamenti di mia madre, poi ho ricevuto tanto sostegno soprattutto dagli amici e dalla famiglia e mi è stata tesa una mano da chi era più povero di me, da chi aveva rinunciato a ogni bene materiale: vengo a sapere che cercavano un custode al monastero delle suore di clausura. Mi presento, faccio il colloquio, racconto la mia storia e mi assumono. Chi l’avrebbe mai detto?”.

4 Commenti a “Vite quotidiane. Intervista a Carla Collu”

  1. Roberta Gessa scrive:

    Tesoro mi hai fatto commuovere,tt qst fa di te una persona ricca e piena di grinta da donare…anche sl col tuo sguardo,sorriso e figurati se apri bocca….!!!! Ahahhhhh…. Grande carletta ….un forte abbraccio e baci baci…<3 <3<3

  2. carla collu scrive:

    Grazie roby grazie di cuore…ti abbraccio forte forte…♥

  3. Luigi Amat scrive:

    Ho trovato splendide le parole con cui hai descritto la chiamata dell’ultimo impiego. Complimenti per tutto. Davvero.

  4. Simona Santolisier scrive:

    Carla, una ragazza dal cuore d’oro, conosciuta prorpio al Monastero, mentre io lasciavo Lei subentrava, un incontro voluto dall’alto… L’intervista mette ben in risalto il Suo carattere. Ho tanta ammirazione e rispetto per il suo vissuto. Oggi e’ una donna che arricchisce chi la incontra. Io personalmente nutro per Carla ( per te… ), un sentimento sincero. Simona

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