Nato a Sheikh Jarrah, morirò a Sheikh Jarrah

16 Dicembre 2009

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Alice Sassu

Gerusalemme.
Nel quartiere di Gerusalemme est, famiglie palestinesi resistono all’oppressione e all’occupazione israeliana: uomini, donne, bambini, anziani e anziane, insieme per riottenere la loro terra. Dopo l’occupazione israeliana del 1967 e l’annessione di una considerevole parte di quei territori, come Gerusalemme est, il governo cerca in tutti i modi di allontanare le famiglie arabe palestinesi dalle loro case per farne dei quartieri ebraici. Nonostante l’annessione dei territori occupati sia considerata illegale anche dal diritto internazionale, il governo israeliano persegue il suo progetto di annessione di quelle terre, che considera sue in nome di una presunta antica “proprietà religiosa”. Sheikh Jarrah è un quartiere di Gerusalemme est che fino al 1972 era abitato esclusivamente da circa 2700 palestinesi, ovviamente con cittadinanza israeliana dopo l’occupazione del ‘67. La presenza di una tomba ebraica attribuita a Simone il Giusto, che vede nel quartiere un continuo via vai di fedeli, ha giustificato un piano regolatore che ha il fine di demolire il circondario palestinese esistente, in favore della costruzione di un insediamento esclusivamente ebraico. Dal 1972 le famiglie palestinesi del quartiere di Sheikh Jarrah rischiano così di perdere la propria casa.
Nasser Al Ghawi racconta: “mi cacciarono dalla casa il 2 di agosto di quest’anno, ma io rimango qua, con la tenda, senza la tenda, dormendo per strada. Perché questa è la mia terra, e io rimarrò qua, nella terra storica palestinese. La mia famiglia, è rifugiata dal ‘48, e vivevano in un paese che ora è un quartiere di Tel Aviv, se ne andarono perché avevano paura delle bombe e dell’esercito israeliano. Però, ora noi non abbiamo paura, perché questa è la nostra casa. Il mio sangue è legato a questa terra, anche prima che venisse costruita la casa. Come puoi vedere ho molti alberi, olivi, limoni, io mi sono alimentato da questi alberi. E’ la mia terra e l’occupazione un giorno se ne andrà”. Dal 1972, con mandati minacciosi di sfratto, il governo israeliano ha cercato di sfrattare le famiglie palestinesi che abitavano il quartiere, e diverse azioni legali si sono susseguite negli anni. Il problema principale sta nel fatto che queste famiglie, già profughe dall’occupazione del 1848, hanno ricevuto le case di Sheikh Jarrah (nel 1956) dal governo giordano e dall’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (l’UNRWA). Dopo aver pagato un affitto simbolico al governo giordano per tre anni, le case sarebbero dovute diventare proprietà delle famiglie. Tuttavia, le azioni legali sotto la corte israeliana perdurano dal 1972 fino ad oggi. Negli anni passati le famiglie arabe potevano avere solo degli avvocati ebrei, i quali per due processi hanno firmato delle carte di patteggiamento all’insaputa dei diretti interessati. Era proibito, infatti, che un arabo entrasse nella corte israeliana, ora però che sono difesi da un avvocato arabo, lo sfratto è comunque avvenuto. Nonostante le abitazioni furono concesse ai rifugiati dalle Nazioni Unite, proprio queste ultime si rifiutano di partecipare in aula durante i processi. È significativo che qualche giorno fa, una rappresentante dell’Unrwa che si era recata dalla famiglie per conoscere la situazione attuale, è stata allontanata dalle forze di polizia sioniste. Insomma, le famiglie arabe pur lottando ancora legalmente con continui appelli alla corte, si ritrovano a vivere per strada, nelle tende, sostando di fronte alla propria abitazione, ora occupata dai coloni.
Maher Hannoun racconta: “la nostra famiglia è composta da 16 persone, sei dei quali bambini. La famiglia Al Gawi è di 38 persone, 14 bambini. I coloni con le forze dell’ordine sono venuti la mattina molto presto, quando era ancora buio, hanno chiuso tutta l’area e ci hanno attaccato. Hanno rotto le finestre, sono arrivati con la forza e hanno buttato fuori tutta la famiglia. La polizia è arrivata con le armi, noi siamo civili e non abbiamo armi. La mia famiglia ha vissuto sotto gli alberi per tre mesi e solo dopo abbiamo affittato una casa”. La famiglia di Maher Hannoun fu sfrattata nel 2002. Il 2 agosto 2009, in una recente serie di espulsioni, 53 profughi palestinesi, compresi 20 bambini, sono stati sfrattati dall’autorità israeliana. Tra queste, la famiglia Al Gawi e la famiglia Al Kurd, che lottano ogni giorno per riottenere la proprio casa, sostando con sit-in perenni e tende sotto la propria abitazione.
Così racconta Nabil Al Kurd: “la mia casa fu costruita 10 anni fa, per ampliare la vecchia che sta dietro. La costruimmo in un anno e, 9 anni fa, la corte mi prese la chiave della casa, perché avevo costruito senza permesso. La casa è illegale, ma ora ci vivono i coloni ebrei. Per loro non è illegale. Da quando ci vivono è sempre presente la polizia che li protegge, e puoi sempre vedere una macchina della polizia di fronte alla mia casa”. Il problema della casa costruita da Nabil è che è costruita senza permesso, ma è nota la difficoltà dei palestinesi di ottenere permessi di costruzione a Gerusalemme. Un permesso per i palestinesi costa all’incirca 30.000 dollari e il tempo di attesa è in genere di minimo cinque anni. Peraltro, vengono esaminate soltanto 150-200 domande all’anno e se la costruzione viene autorizzata, l’abitazione può essere al massimo di uno o due piani rispetto agli otto accordati ai costruttori ebrei. La densità edilizia concessa ai palestinesi è di 3.3 unità per dunum (equivalente a 0.09 ettari) rispetto alle 8.6 degli israeliani. Prosegue Nabil: “hanno deciso di attorniare la città vecchia e allontanare gli arabi, prima eravamo 35% in questa zona, e ora siamo 12% . Stanno cambiando la demografia e la geografia della città. Cambiano i nomi, cambiano le strade, e cambiano l’area, non vogliono arabi a Gerusalemme”. Alla fine dell’intervista, Nabil ci presenta l’anziana madre che presenzia ogni giorno nella tenda posta a fianco all’abitazione occupata dai coloni, ci racconta che all’una e mezza della notte, prima dell’ordine della corte, arrivarono i coloni ed entrarono nella casa, occupandola illegalmente. Aggiunge che, durante il processo, la madre fu picchiata dai coloni, ma a quanto pare è all’ordine del giorno la violenza perpetuata nei loro confronti. La famiglia di Nasser Al Gawi vive dall’agosto di quest’anno in una tenda che sistematicamente viene buttata giù dalla polizia israeliana, la tenda è di fronte alla loro casa ora occupata dai coloni, ma Nasser continua a resistere per poter ammainare la bandiera israeliana da quella casa, che è della sua famiglia da ben 53 anni. Così racconta ancora Nasser: “vogliono dare a Israele tutto quello che vuole perché è una strada per entrare nel medio oriente. Dobbiamo boicottare l’economia di Usa e Israele, e solo dopo possiamo trovare una soluzione al conflitto. Credo che potremo farlo se vogliamo farlo, e chiedo a tutti i paesi di boicottare. In Francia e in Inghilterra il boicottaggio è molto forte e speriamo che accada anche in Italia. Sono nato a Sheikh Jarrah e morirò a Sheikh Jarrah”.
Ecco il mio racconto fotografico.

6 Commenti a “Nato a Sheikh Jarrah, morirò a Sheikh Jarrah”

  1. Sara Nahum scrive:

    Invito a vedere la foto numero 11 di questa pagina prima di scrivere cavolate come “Sheikh Jarrah è un quartiere di Gerusalemme est che fino al 1972 era abitato esclusivamente da circa 2700 palestinesi,”
    Didascalia della foto: Nahalat Shimon, 1939. The neighborhood was established in 1891, near the neighborhood of Sheikh Jarrah. It got its name due to its proximity to the Simeon the Just cave.

  2. Alice Sassu scrive:

    Il tuo è un commento estremamente duro, provocatorio e per nulla costruttivo. Effetti della propaganda sionista, altrimenti mi pare impossibile pensare che una ragazza, leggendo racconti di esperienze dirette come queste, storie di soprusi e d’ingiustizie, possa cercare il pelo nell’uovo.
    Ad ogni modo, la mia finalità non era certo quella di ricostruire storicamente la presenza di ebrei e arabi nel territorio ma, attraverso i fatti e i racconti di vite, far emergere l’immane ingiustizia che il governo israeliano perpetua ogni giorno nei confronti degli arabi palestinesi. Dopo aver invaso militarmente Gerusalemme est nel 1967, il governo israeliano agisce quotidianamente per allontanare i palestinesi da quelle terre. Nel 1972 quando il governo inizia una battaglia pseudolegale per cacciare le prime famiglie dal quartiere di Sheikh Jarrah, nessun israeliano abitava la zona. Unico obiettivo è farne dei quartieri esclusivamente per ebrei. E’ sotto gli occhi di tutti. Sempre quasi impossibile che un popolo (di cui Israele si fa rappresentante) che ha subito una pulizia etnica di tal portata, si macchi di azioni violente, razziste, colonialiste. Per fortuna ci sono i dissidenti che non si rispecchiano con la politica del governo. Rischiando l’isolamento sociale, lavorativo e il carcere, lottano ogni giorno contro un’altra pulizia etnica.
    1948. Una nave carica di centinaia di ebrei festosi nel salutare per la prima volta la terra promessa, incrocia una nave di fuggitivi palestinesi, a cui è stata strappata la terra, la famiglia e la casa.

  3. Michele Podda scrive:

    Poichè siamo nel “Manifesto sardo” voglio riferirmi alla Sardegna.
    L’ingiustizia nei confronti dei Palestinesi è evidente, il problema è come combatterla. Loro fanno quello che possono, ma noi cosa possiamo fare?
    Forse noi potremmo stare più attenti perché non capiti a noi ciò che capita a loro. Ho come una certa impressione che anche qui, con metodi più subdoli anche se certamente meno dolorosi, ci vogliano far lasciare tutto: la lingua, la cultura, le tradizioni, le attività lavorative tradizionali, le case, i territori. Non so perchè, ma mi sa che noi sardi perderemo in breve quel poco che ci resta della nostra identità e scompariremo per sempre come popolo e come cultura, lasciando che altro e altri occupino la nostra isola.

  4. Alice Sassu scrive:

    ciao michele, riguardo al problema di come combattere dall’interno l’occupazione israeliana in Palestina, bè ho imparato che è necessario lasciarlo ai palestinesi stessi. Troppo spesso si tende a dare delle formule precostitutite di possibili risoluzioni, tattiche di lotta, strategie, etc. E’ nostro dovere raccontare e divulgare le conseguenze dell’occupazione, perchè solo in questo modo si può contrastare la propaganda israeliana, di cui l’informazione ufficiale in occidente si fa portavoce. Dall’altra parte però non dobbiamo mai dimenticare che quello che accade in Palestina è certamente frutto della logica del sistema internazionale, dove è il mercato del capitale che ne regola le dinamiche. Per il resto, credo che sia estremamente difficile paragonare la colonizzazione che subiscono i palestinesi con quella dei sardi. Si tratta di dinamiche differenti, di cui però sarebbe interessante discutere. Ovvero, quello che subisce la Sardegna è frutto della globalizzazione, che colpisce quindi l’intero globo, e in questo senso, secondo me le dinamiche di lotta sono soprattutto internazionali. La Palestina subisce una colonizzazione, nel suo senso ottocentesco, non solo un imperialismo. Qua si tratta di pulizia etnica, di eliminazione di un popolo e sua deportazione.

  5. Francesco Giordano scrive:

    Il commento di Sara Nahum è chiaramente di una sionista, quindi razzista, complice della criminale occupazione della Palestina e a mio avviso non andava nemmeno pubblicato.
    Chi si macchia di crimini come l’occupazione della Palestina non merita ascolto, ma solo di essere processato come a Norimberga.

  6. Marcello Madau scrive:

    Noi non dobbiamo limitarci a convincere noi stessi, ma avere un’ottica più ampia. Essere in grado di dare strumenti a chi non ne dispone o a chi – e non sono pochi – è persino incerto. La forza degli argomenti prevale anche attraverso il contradditorio, che vive non mediante l’occultamento delle idee sbagliate ma con la pubblicazione delle stesse – talora sono più efficaci delle critiche – e la loro confutazione.

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