Donne, politica e i casi “Carfagna”

1 Settembre 2008

carrots.jpg

Simonetta Sanna

Riceviamo da Simonetta Sanna, consigliere regionale del PD, il seguente articolo.

Non conoscendo la vita di Mara Carfagna, le considerazioni che seguono non intendono insistere sulle traversie in cui si è imbattuta l’attuale ministro per le Pari Opportunità. Con l’intenzione di sfuggire a consuete forme di censura e più spesso di autocensura, s’interrogano,invece, su di un orizzonte concettuale che permetta di esprimere un’opinione, senza ricadere nei clichè. Difatti, non sono solo le donne ad avere difficoltà a parlare dei ‘casi Carfagna’ et similia – del resto, la solidarietà femminile è andata alla Carfagna, “riabilitata da tutte le donne in maniera trasversale”, non a Sabina Guzzanti, che ha richiamato molto polemicamente l’attenzione sulle implicazioni politiche –, ma, soprattutto in Italia, è in generale complicato assumere una posizione chiara. La nostra società non somiglia infatti né a quella dei Paesi protestanti del Nord Europa, né a quella degli USA: in Svezia, certo estranea a ogni forma di bigottismo, un ministro donna, avendo acquistato con la carta di credito ministeriale una confezioni di dolci per i figli, ha dovuto rassegnare le dimissioni pur avendo immediatamente restituito l’importo: la distinzione fra pubblico e privato, disdegnando ogni commistione, porta a giudicare il comportamento pubblico esclusivamente con le categorie dell’etica pubblica. Al contrario, la società statunitense, tuttora puritana, tende a enfatizzare il privato che finisce per riversarsi sul pubblico: per avere mentito al Grand Jury in merito alla sua relazione con Monica Lewinsky, Bill Clinton è stato il primo presidente americano, in epoca moderna, a essere sfiduciato dalla Camera dei Rappresentanti. Anche la nostra società non conosce separazione fra pubblico e privato, ma il privato finisce per dominare gli eventi pubblici con conseguenze opposte a quelle degli Stati Uniti. Difatti, se dietro al vizio pubblico emerge l’individuo, il gioco è fatto! Proprio perché ‘siamo tutti peccatori’, parlare del peccatore, e non genericamente del peccato, produce quel caratteristico differimento di attenzione che conosciamo: si ricade in una generale indulgenza che trasforma il colpevole in vittima, e spesso l’accusatore in colpevole, rimuovendo del tutto la violazione (pubblica) originaria, che nell’Europa del Nord resta vincolante. Proclamarsi vittima paga, dunque, considerato che la morale privata finisce per inghiottire e dissolvere quella pubblica, evitando fra l’altro al ‘colpevole’ un esito increscioso: il pagare pegno, ad esempio con l’impeachment o rassegnando le dimissioni, come pure sono stati costretti a fare, a causa di un differente sentire collettivo, il ministro nordico e il presidente degli Stati Uniti d’America. In attesa che nel nostro Paese si affermi una più matura cultura civica condivisa, interessa qui una questione immediata: come sfuggire alla trappola di un complice silenzio in presenza di un ‘caso Carfagna’ nelle istituzioni. Individuando un codice assiologico che funga da bussola, e che anticipi un più moderno rapporto tra sfera pubblica e privata, consentendo al contempo di salvaguardare l’integrità dell’individuo. Si tratta di un problema di non poco conto, che è parte essenziale del dibattito contemporaneo sui modelli dell’etica pubblica. Due sono, in proposito, le tipologie dell’azione politica. Da una parte, il modello consolidato delle relazioni strategiche finalizzate a uno scopo, il quale, nel rispetto di precise gerarchie, assegna a ciascun componente un ruolo funzionale in vista della realizzazione di un fine, che spesso coincide con la conservazione o l’accrescimento del potere proprio, del gruppo o del territorio di appartenenza. Le tattiche congruenti impongono un severo aut/aut: ‘chi non è con me/noi, è contro di me/noi’. Di conseguenza, il processo decisionale è compromesso dalla coazione a raggiungere un consenso, indipendentemente da come quel consenso viene ottenuto e perfino dalla giustezza delle decisioni assunte. La contaminazione, infatti, fra i pregiudizi condivisi e il conformismo del gruppo favorisce potenzialmente decisioni insoddisfacenti. Il consenso è ‘contaminato’ perché le decisioni non si basano sulla condivisione delle informazioni disponibili, né sono indipendenti. Le espressioni di dissenso sono anzi soffocate tramite le sollecitazioni a ‘pensare come membro del gruppo’, mentre la tolleranza verso il disaccordo è minima. Il pensiero di gruppo spersonalizza i soggetti, portandoli a spogliarsi di ogni dubbio non funzionale allo scopo, anzi a esercitare una preventiva autocensura: contano infatti la fedeltà, il conformismo, non le qualità umane, i meriti o le competenze individuali. Che tale modello possa portare al potere anche persone di qualità umane non elevate non è che la logica conseguenza. Un modello alternativo dell’agire politico – ispirato al femminile, quale categoria non biologica, ma psicologica e simbolica presente nei due generi è non già nella sola donna – è meno affannato a gestire il presente, proprio perché nutre la preoccupazione del futuro. L’esigenza di elaborare una strategia organica che corrisponda a un’etica della previsione e della responsabilità, proporzionale alle sfide e capace di offrire risposte adeguate, porta a incoraggiare attivamente il dissenso e un atteggiamento mentale critico, valorizzando le differenze e ridimensionando invece i ‘signorsì’ che nel primo modello hanno la meglio. Il consenso, risultato del confronto fra diverse opinioni e di un autentico dibattito critico, non è più formale e passivo, ma frutto di un’adesione interiore e quindi in sé più flessibile, ma anche più stabile. Inoltre, proprio perché la qualità delle decisioni e la consapevolezza del gruppo cresce in misura proporzionale alla crescita della consapevolezza del singolo, i processi decisionali tendono a non trascurare l’intimo intreccio fra la conoscenza di sé e la responsabilità etica collettiva: un’azione politica adeguata implicherebbe di conseguenza la volontà di superare le fratture prodotte dalla storia – prima fra tutte quelle tra io/altro, amico/nemico, bene/male – non solo nei rapporti sociali, ma anzitutto come demarcazione che passa all’interno di uno stesso individuo. Entro questo secondo orizzonte le specifiche debolezze che si è soliti imputare alle donne – come la difficoltà di ‘fare squadra’ e la paura del conflitto – assumono un nuovo significato: ‘fare squadra’ al femminile è più laborioso proprio perché più ricche e articolate sono le componenti anche critiche da portare nel gruppo, mentre il conflitto come tale è rigettato perché il femminile non lo ama, ma tende a elaborarlo per poi sanarlo. Laddove il modello simbolicamente maschile spesso degrada la politica a un confronto muscolare per la spartizione delle risorse pubbliche, l’altro è più consono alla buona politica, a una politica che implichi la capacità di guardare oltre l’immediato per promuovere un più autentico sviluppo sociale e ampliare la partecipazione consapevole alla vita politica. Per conseguire questi obiettivi è però necessario riversare l’attenzione non già sull’esclusivo conseguimento dei fini, ma dedicare ogni cura alle modalità dell’azione politica, al come, identificando le prassi più adeguate e convenienti. Si tratta di un problema centrale e spesso trascurato, che pure finisce per incidere profondamente sulle finalità perseguite, talora sino a stravolgerle, giacché il fine dovrebbe essere contenuto nei mezzi: le modalità, le forme e gli strumenti istituzionali e relazionali del sistema politico, nonché i metodi di governo, finiscono infatti per determinare gli esiti e le concrete ricadute sociali. E’ proprio questa differenza fra i due modelli delineati che consente di orientarsi anche rispetto ai ‘casi Carfagna’: la prioritaria solidarietà con le escluse, che le donne nelle istituzioni hanno il dovere di rappresentare, dovrebbe indurre a rifiutare le relazioni strategiche fondate sul conformismo di gruppo, cui le donne sono funzionali o in ragione della seduttività e dei relativi ‘meriti di alcova’ e/o in ragione di una garanzia di allineamento: in entrambi i casi, non solo senza competenze e meriti assunti come una qualità socialmente utile, ma soprattutto secondo logiche che finiscono per bloccare le dinamiche sociali e la creazioni di nuovi valori. Un tale comportamento deve essere contrastato proprio perché non potrà evitare che la politica stessa continui a essere percepita dalla maggioranza delle donne come astratta e lontana, competitiva e torbida, tale, insomma, da non riuscire a mobilitare il loro senso di responsabilità etica. Se oggi in Italia sembra ancora lontano il traguardo della presenza paritaria di genere nelle istituzioni, dovrebbe invece essere riconosciuto possibile, anzi irrinunciabile, anticipare nell’oggi quelle modalità dell’agire politico che esprimano appieno un’attiva solidarietà con le ‘escluse’ e si facciano carico della responsabilità nei confronti delle generazioni a venire. Va da sé, infine, che i criteri delineati non possono valere per le sole donne, ma riguardano l’insieme dei rappresentanti nelle istituzioni, uomini e donne: in caso contrario, descriveranno la distanza che separa le prassi politiche attuali da quelle di una società decente che non tradisce la fiducia dei cittadini, cui anzi sta a cuore soddisfare i loro criteri di giustizia.

2 Commenti a “Donne, politica e i casi “Carfagna””

  1. Marcello Madau scrive:

    Oggi l’illegalità sfrontata non crea problemi ed è l’arma vincente della maggioranza degli italiani. Guy Debord e la sua analisi profetica della società dello spettacolo ci fanno capire meglio che tutto questo non è casuale. I soliloqui riformisti sono spazzati dalla realtà: con la Carfagna Berlusconi mostra il suo freddo spregio per le istituzioni democratiche, la vera politica vincente è la (sua) televisione, e – visto che . viviamo in un paese dove ovunque, anche nelle carriere accademiche democratiche e di sinistra, i ‘meriti di alcova’ hanno favorito, favoriscono e favoriranno luminose carriere – rappresenta con logica bipartisan l’Italia. Lui se la ride come il joker, ma, come sappiamo, Batman è in realtà dalla sua parte.

  2. Simonetta Sanna scrive:

    Concordo con M. Madau. Ma proprio perché viviamo in un clima imperante di società dello spettacolo, mi pare importante distinguere. Ad esempio, non conosco ‘luminose’ carriere (politiche, accademiche e a.) costruite sui meriti di alcova: distinguo carriere di potere e carriere di fatte di apparenza e imposizione mediatica (e non solo), mai però ‘luminose’, durature, autentiche. Nutrire la capacità di distinguere mi pare un presupposto per imparare a sottrarsi alle logiche dello spettacolo, per non contribuire a renderle totalitarie. Se poi segue anche un discorso categoriale più preciso, ben venga; in tal senso la mia proposta: etica privata/etica pubblica; logiche del potere strumentali/logiche alternative capaci di guardare oltre l’immediato, ecc. ecc.. Il pericolo altrimenti è che finiremo per assumere le decisioni politiche persuasi da codici subliminali, come quando si sceglie un prodotto in base al suo packaging riuscito.

Scrivi un commento


Ciascun commento potrà avere una lunghezza massima di 1500 battute.
Non sono ammessi commenti consecutivi.


caratteri disponibili

----------------------------------------------------------------------------------------
ALTRI ARTICOLI