Diamoci un’alternativa

1 Aprile 2010

redazionale

Redazionale

Il tema dello sviluppo alternativo a quello industriale, di un assetto economico nuovo, basato sulle risorse e le intelligenze del territorio, pienamente rispettoso dell’ambiente, non è certamente nuovo.
Però mai come in questi ultimissimi anni la crisi appare radicale e strutturale, si configura come una crisi di sistema; ci appare come un aspetto della più generale crisi del capitalismo, che si scaglia sulle coste dell’isola come un vero tsunami. Senza trovare neppure i freni di una società agro-pastorale arcaica quanto si voleva ma in qualche modo funzionante. Ora nella sostanza frantumata e comunque molto più debole.
Eppure la riflessione sui modelli appare costantemente arretrata, e talvolta banale.
E’ grande l’ostinazione nel non capire che questo assetto industriale senza un’idea avanzata di riconversione della produzione e delle competenze, è davvero irresponsabile, e ricorda l’accanimento terapeutico. Quale prospettiva dare al lavoro? Come unire l’innovazione tecnologica e ambientale al futuro occupazionale e produttivo? Pochi ci credono, o sanno di cosa si parla.
La sinistra non riesce ancora a capire che la sua forza è sempre stata significativa quando ha colto non solo il problema del lavoro, ma la portata storica del suo ruolo e delle sue crisi. Non proporre e organizzare il lavoro all’interno di un’idea strutturata e storicamente progressista del cambiamento sociale e della qualità della produzione stessa significa perdere il radicamento e l’utilità sociale e politica della sinistra stessa.
Se non capiamo questo, non capiamo ad esempio perché al Nord i grandi bacini operai stanno passando alla Lega (Lombardia, Piemonte: la Breda e la Fiat, Gobetti e Gramsci). Né comprendiamo che la chiamata identitaria assieme a quella securitaria danno comunque rappresentanza e soggettività (pur non mettendo affatto in crisi, evidentemente, il sistema di potere economico).
Naturalmente sappiamo, e riteniamo, che non sia neppure pensabile né giusto risolvere con la parola magica dell’autogoverno una crisi che ha connotati ben più ampi degli spazi isolani.
Come affrontare allora la crisi della nostra isola e dare risposte, assieme a quadri interpretativi comprensibili di ciò che davvero succede, alle migliaia di lavoratori che ingrossano le schiere della disoccupazione e del precariato? Per i giovani sardi, la prospettiva è quella indicata da qualche vittoria sanremese, o altro? Vi è prospettiva nella cosiddetta economia ambientale? Non sarà il caso di riprendere a costruire alleanze?
Noi tutti siamo in qualche modo responsabili della solitudine mediatica e della dimensione spettacolare alla quale sono costretti volta per volta gruppi operai, ieri sui tetti oggi all’Asinara.
Qualcuno parla degli operai dicendo che il loro problema non esiste, o sarà risolto da qualche paradiso identitario, nuova panacea millenarista. Quando scioperano, meglio non partecipare. Eppure bisogna stare assieme agli operai, proporre soluzioni e battaglie concrete che sappiamo costruire rapporti di forza. E se questo o quel comparto economico è senza speranza, e questa dinamica continua ad apparire strutturale e inseparabile dal capitalismo e da questo capitalismo, non sarebbe sbagliato rilanciare il discorso del reddito di esistenza.
Ma ben oltre a questa pur sacrosanta difesa del poter vivere, ci piacerebbe dire agli operai che occupano l’Asinara, che salutiamo con riguardo e solidarietà, di occuparla davvero, sbarrando ogni ipotesi immobiliare e nucleare, chiedendo che si incrementino a dismisura le produzioni eco-sostenibili e di partecipare alla costruzione di questo e altri parchi.
Nel Manifesto sardo il tema del lavoro e della rinascita fallita è stato discusso molte volte, toccando non solo problemi specifici, ma ragionando sulle complessive criticità: dai cattivi maestri alla crisi del petrolchimico, al ruolo dell’Eni, alla facile profezia che la crisi dell’Alcoa avrebbe dovuto prima o poi condurre qualcuno a dire agli operai: con il nucleare l’energia sarà a basso costo. Il PdL lo ha fatto. Mentre dobbiamo prepararci a respingere con decisione, intransigenza e durezza la dissennata scelta nucleare (non solo per la Sardegna), è bene aumentare lo sforzo e la qualità della discussione su quale direzione dare alle politiche economiche e sociali nell’isola.
Vogliamo perciò – accogliendo richieste e proposte che ci stanno pervenendo e chiedendo il contributo di chi ha qualcosa da dire – dedicare al prossimo numero un’attenzione speciale a questo tema, con la pubblicazione di alcuni articoli.
Il problema, per la sinistra, non è stabilire se si sta con l’UDC oppure con Vendola, se i sardisti magari abbandoneranno il centro destra, almeno a Sassari. Il problema è riprendere a discutere di lavoro e fare progetti a partire da esso.

Vi proponiamo intanto, come prima base di discussione, alcuni pezzi già pubblicati nel Manifesto Sardo e due articoli usciti nel sito ‘Economia e politica’.

I cattivi maestri e le cattive compagnie
(Redazionale)

Petrolchimica addio?
(Marco Ligas)

Alcoa a basso costo e Scajola nucleare
(Redazionale)

Foto-ricordo?
(Redazionale)

Eni-bond
(Piero Sanna)

Mezzogiorno in gabbia
(Giorgio Colacchio)

Grandi imprese e tecnologie energetiche alternative
(Stefano Sylos Labini)

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