Antisionismo a 43 anni dalle proteste per la Giornata della Terra

1 Aprile 2019
[Anna Maria Brancato]

Settantuno anni di resistenza hanno fatto sì che in ogni giornata dell’anno possa esserci un motivo per ricordarsi della Palestina. La giornata della Terra (Yawm al Ard) è solo una di queste giornate.
Quarantatré anni fa, il 30 marzo 1976, ci fu una pesante protesta dei palestinesi residenti nei villaggi di Sachnin, Arraba e Deir Hanna, nei Territori Occupati nel ’48, contro la decisione delle autorità d’occupazione di confiscare una vasta porzione di terreni agricoli per scopi militari. Il bilancio della repressione israeliana fu di 6 morti e tanti feriti.

Il 30 marzo del 1976 si pone come punto intermedio in una linea immaginaria che possiamo far partire dal 1948 e arrivare fino ad oggi e rappresenta uno dei momenti del crescendo della arroganza sionista che sta raggiungendo il suo apice oggi, in questo momento, con la feroce e spietata repressione della Grande Marcia del Ritorno, la manifestazione a cadenza settimanale che i gazawi portano avanti ormai da un anno, a ridosso delle linee di demarcazione tra la Striscia di Gaza e Israele per rivendicare il diritto a vivere dignitosamente sulla propria terra. Non è un caso, dunque, che la Marcia sia stata fatta iniziare un anno fa, proprio in concomitanza con la Giornata della Terra.

La terra, al ard, è il nocciolo della questione palestinese, il motivo per cui tutto è iniziato ed è ciò di cui il movimento sionista è assetato: la creazione di Israele nel 1948 era finalizzata a raggruppare gli ebrei di tutto il mondo (almeno nelle intenzioni), in una unica ed esclusiva porzione di terra; l’occupazione della Cisgiordania, di Gaza, Gerusalemme Est e del Golan nel 1967 è il continuo di una politica di furto, espropriazione e occupazione di nazione che si desiderava sempre più grande e pura, a dispetto del diritto internazionale; nel 2018 il sostegno americano a questa politica usurpatrice cessa definitivamente di essere velato e viene annunciato il trasferimento dell’Ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme (atto di profondo valore simbolico per Israele e la comunità internazionale); per tornare di nuovo al Golan occupato, qualche giorno promesso da Trump a Netanyahu, come chiaro endorsement nelle vicine elezioni israeliane di aprile.

Da settantuno anni a questa parte, la sete sionista di terra non si è placata, trasformandosi in un desiderio spasmodico, intenso e compulsivo che più viene soddisfato, più si alimenta. Per questa ragione, oggi acquista ancora più valore il focalizzare l’attenzione sui termini utilizzati nel nostro discutere della e sulla questione. Come recenti eventi hanno infatti dimostrato, è molto facile cadere nella provocazione e nella propaganda sionista e diventare facile bersaglio di chi considera antesemita chiunque critichi le inumane politiche israeliane.

Alla luce di quanto detto, essere antisionisti significa opporsi fermamente alle politiche di occupazione, di furto e di trasferimento della popolazione palestinese attuate da 71 anni dalle autorità israeliane. Significa rifiutarsi di rimanere in silenzio e di girarsi dall’altra parte quando uno stato che si vanta di essere democratico e che viene a pieno titolo inserito nella cornice delle potenze occidentali continua a tenere in ostaggio una popolazione e a utilizzarla come bersaglio per i suoi esperimenti bellici. Essere antisionista, dunque, significa anche cercare di mettere in luce l’assenza nel sistema israeliano di quelli che convenzionalmente sono considerati elementi imprescindibili di un assetto democratico: uguaglianza, tutela dell’individuo, diritti fondamentali.

Lo stato democratico di Israele è composto al suo interno anche da una minoranza araba. Questa minoranza dovrebbe avere il diritto (in un regime di democrazia) di vedersi rappresentata e lo stato dovrebbe rendere conto a tutta la popolazione delle proprie azioni. Come lo stato democratico di Israele può giustificare le sue politiche sioniste anche di fronte alla sua minoranza araba?

Essere antisionisti è condannare le politiche israeliane che vanno contro i valori occidentali di democrazia e porsi senza remore in solidarietà con il popolo palestinese e con i gazawi che da dodici anni cercano di rompere l’assedio israeliano sulla Striscia per riguardagnarsi una dignità, spesso rimettendoci la propria vita o la propria salute.

Come previsto, nella giornata di ieri non sono mancate le vittime, (3 morti e più di 100 i feriti) vista la mancanza di strutture, di materiali e visto che l’esercito israeliano non esita a colpire i soccorsi. Stare a guardare senza prendere posizione di fronte a questa situazione nel XXI secolo significa essere complici della volontà e della politica sionista.

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