L’infanzia di un mondo sconvolto

16 Settembre 2007

Sante Maurizi

I giorni scorsi lo hanno dimostrato: è sempre più complicato dire qualcosa di interessante sull’11 settembre. Nel sesto anniversario ci ha provato la televisione, con la replica al ralenti di quelle immagini e colonne sonore se possibile sempre più ruffiane. Ci si sono misurati editorialisti e saggisti (almeno due titoli, dei quali notevole il primo: Lawrence Wrigth con «Le altissime torri», Adelphi, e il duo Seidensticker/ Kippenberg con «Terrore al servizio di Dio» per Quodlibet). Ci ha tentato l’amministrazione Bush, ma non pare riuscito il collaudato mix di replicare le emozioni a Ground Zero e dimostrare la giustezza delle scelte di guerra: nella relazione di fronte al Congresso il generale David Petraeus, responsabile delle operazioni in Iraq, non è riuscito a indicare progressi tali da poter far sperare in un rapido ritiro dal paese che fu di Saddam, confermando indirettamente quella puzza di Vietnam che molti sentono in giro. Come al solito chi è riuscito a fare notizia è stato Bin Laden, con due nuove apparizioni – sì, come i fantasmi – che hanno rinfocolato le paure con l’utilizzo di immagini dubbie e addirittura di una inquadratura fissa: anch’egli lontano dall’impatto di altri tempi.

C’è però un’altra strada, quella percorsa da Giovanna Pajetta in «Nati l’11 settembre», in edicola e in libreria per Manifestolibri (pp.144, € 8,90): parlare dei bambini attraverso l’attentato delle Torri e gli altri episodi di questi anni di guerra. «I bambini, le famiglie e la scuola nei sei anni che hanno sconvolto il mondo», recita il sottotitolo del volume, e tale è infatti uno dei suoi assunti: episodi più o meno collegati – ottobre 2001: invasione dell’Afghanistan; marzo 2003: invasione dell’Iraq; marzo 2004: attentati a Madrid; settembre 2004: strage di Beslan; luglio 2005: attentati a Londra; dicembre 2006: impiccagione di Saddam – hanno come denominatore comune l’invasività nella quotidianità dei bambini di immagini e suoni sconvolgenti che provengono dalla più sottovalutata delle fonti: l’informazione televisiva.

«Sarebbe bello se i cartoni animati fossero veri e i telegiornali fossero finti: vorrei che i telegiornali esistessero solo nella televisione e non nella realtà» disse Simone al maestro Sergio in una seconda elementare di Marina di Pietrasanta nei giorni dell’offensiva in Iraq. Nella lotta quotidiana di appropriazione del telecomando gli adulti considerano il telegiornale come un diritto inviolabile e, quel che è peggio, hanno l’abitudine a considerarlo «neutro». Proprio noi italiani dovremmo saperlo bene: il dibattito di trent’anni fa sulla limitazione delle informazioni come deterrente alle azioni terroristiche aveva messo in luce, seppur in modo primitivo, come il nodo terrorismo-violenza-comunicazione vada affrontato e non esorcizzato con la formula del «diritto di cronaca», troppo screditata dalla rincorsa all’audience perseguito con tutti i mezzi e con fare da avvoltoi.
La deriva di questi anni potrebbe essere raccontata da decine di esempi. La Pajetta ne sceglie uno, la scelta del Tg1 di trasmettere, il 9 aprile scorso, lo scoop del video della decapitazione di Sayed Agha, autista di Daniele Mastrogiacomo, interrotta un attimo prima dell’atto cruento.

Gli studi dell’impatto sui bambini delle ansie indotte dalla televisione sono scarsi, e solo negli Stati Uniti c’è stato un vero sforzo in tal senso. Il sociologo infantile David Finkelhor ha condotto un’indagine dalla quale risulta chiara la relazione fra «più televisione» e «più preoccupazione» soprattutto fra i bambini dai sei ai nove anni. Magda Di Rienzo, psicoterapeuta romana, sottolinea una relazione fra l’accertato aumento delle paure dei bambini e fenomeni come il bullismo: «Dopo l’11 settembre c’è stata una crescita esponenziale dei disagi e delle aggressività non elaborate». La verità è che sappiamo poco o nulla della vita dei bambini, malgrado la loro immagine sia quasi ossessiva nel discorso pubblico. Al centro di morbosi fatti di cronaca o oggetto di strategie pubblicitarie che inducono al consumo compulsivo, i più piccoli sono i protagonisti della retorica familista e dei programmi elettorali, salvo scomparire nel loro esistere materiale e quotidiano, con tutto ciò che è il loro mondo: basti considerare come siano precipitati in basso nella scala sociale gli insegnanti e gli educatori in poco più di una generazione.

Rona Dolev, ricercatrice scozzese di origini israeliane, è però, se non ottimista, propositiva: «Non sottovalutate le paure dei vostri figli, trattatele con rispetto anche quando vi sembrano delle sciocchezze. Siate onesti con loro, ditegli la verità in modo adeguato alla loro età. Limitate il loro accesso ai notiziari televisivi. Infine, non cercate di essere dei ‘supergenitori’: è normale che commettiate degli errori o diciate qualcosa di sbagliato».

Chissà se mettendo in pratica i consigli della Dolev riusciremo a scongiurare le oscure prospettive che stanno dietro una delle frasi di Massimiliano, 11 anni, riportate nel libro della Pajetta: «C’è stato un periodo che guardavo abbastanza spesso il telegiornale, poi adesso ho smesso: si vedono sempre le stesse cose, guerra, bombe, persone, uccise. Il Tg è così, fanno vedere solo morte, soldi e politica». Rischiamo di allevare una generazione peggio che senza speranza: schiavi di un mondo che ignoreranno?

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