Come costruire lo Stato imprenditore?

16 Febbraio 2015
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Gianfranco Sabattini

Nel numero 3/2014 di “Economia e Lavoro”, la rivista della Fondazione Giacomo Brodolini, ha ospitato i testi di una “discussione” sull’idea-proposta di Mariana Mazzucato sul come trasformare all’interno delle economie capitalistiche lo Stato tradizionale in Stato imprenditore; ciò per uscire dalle secche della crisi e rilanciare la crescita e lo sviluppo. L’articolo introduttivo della Mazzucato è seguito, a commento, da numerosi interventi, tra i quali quello di Riccardo Bellofiore che, oltre a dare maggior forza esplicativa alla desiderabilità della proposta della Mazzucato, offre l’occasione per l’aggiunta di qualche chiosa.
La tesi dell’articolo della Mazzucato riporta quella del suo libro, pubblicato alcuni mesi or sono, il cui titolo “Lo Stato innovatore” riassume in sé il senso e il significato della “discussione”: “Oggigiorno – afferma la Mazzucato – gli Stati di tutto il mondo puntano a una crescita ‘intelligente’ guidata dall’innovazione e sperano che questa crescita, rispetto al passato, sia anche più ‘inclusiva’ e ‘sostenibile’”.
L’Autrice, sviluppando il suo discorso su questo tipo di crescita, sottolinea come il suo perseguimento richieda un profondo ripensamento sul ruolo e la funzione delle politiche pubbliche, finalizzate non solo al finanziamento del tasso di innovazione dell’intera economia, ma anche ad orientare la sua direzione. Perché tali politiche possano essere coronate da successo, occorre però che l’innovazione e l’orientamento siano perseguiti sulla base di una giustificazione di quelle politiche assai diversa da quella tradizionalmente avanzata.
Esse, infatti, devono andare oltre la necessità di fare fronte, come sinora è avvenuto, ai cosiddetti “fallimenti di mercato” e a quella di assicurare come scopo primario la realizzazione di una giustizia distributiva fine a sé stessa; l’obiettivo della promozione di una crescita più inclusiva comporta che sia necessariamente salvaguardata l’attenzione che deve essere riservata alla distribuzione dei rischi e dei benefici, intrinseci alle politiche pubbliche innovative e di governo delle linee future di crescita e sviluppo dell’intera economia.
Per l’attuazione di politiche pubbliche del tipo di quelle proposte dalla Mazzucato, occorrono imprese disposte ad investire nel lungo periodo, nonché uno Stato imprenditore in senso schumpeteriano, e in quanto tale innovatore per definizione, disposto ad accollarsi l’onere di effettuare investimenti ad alto rischio che, di solito, gli imprenditori privati non sono in grado di effettuare, o che tendono ad evitare per l’alta rischiosità.
Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, il ruolo dello Stato è stato ridotto a mero “eliminatore” dei rischi del settore privato, per via del fatto che era divenuta prevalente l’idea che la sua funzione dovesse essere quella di limitarsi a “regolare” il funzionamento dei mercati, nel senso di evitare l’eccessivo indebitamento pubblico, considerato la causa dell’instabilità economica, anche se è stato invece l’indebitamento privato a creare le condizioni dell’instabilità, come poi è risultato evidente con la crisi dei mercati immobiliari americani dei “sub-prime”.
Per realizzare politiche pubbliche innovative, quali quelle proposte dalla Mazzucato, occorre che lo Stato, diventando dinamico ed innovatore, si doti di un nuovo “quadro economico che possa giustificare il ruolo del settore pubblico nel ‘dirigere’ il cambiamento, dando vita alle giuste strutture istituzionali che possano sostenere il cambiamento e adattarvisi in modo dinamico”; occorre anche che siano elaborati nuovi indicatori economici coi quali valutare l’ammontare degli investimenti pubblici necessari e la loro produttività, calcolata in funzione della misura del loro “impatto trasformativo”. Quest’ultimo, evocando la logica argomentativa keynesiana, non deve essere tanto finalizzato a realizzare in senso anticongiunturale ciò che al momento non viene fatto dai privati, quanto a creare le condizioni perché lo Stato assuma, come afferma Bellofiore, il “ruolo del motore di un diverso sviluppo […], nell’orizzonte di un keynesismo strutturale”.
Il perché della necessità di cambiare il ruolo dello Stato è messo in evidenza con chiarezza da Bellofiore; il cambiamento è imposto dalla configurazione che il capitalismo ha assunto, con l’avvento del pensiero neoliberista, alla fine degli anni Settanta; configurazione andata poi in crisi nel 2007/2008. Il neoliberismo ha reso possibile mettere in discussione le condizioni cui aveva dovuto sottostare il capitalismo dopo la fine del secondo conflitto mondiale, “de-democratizandosi” attraverso la compressione delle richieste sociali (particolarmente quelle volte ad ottenere il finanziamento delle politiche di pieno impiego) per porre un limite al crescente indebitamento dello Stato. Paradossalmente, sottolinea Bellofiore, nonostante il crescente contenimento della spesa pubblica, lo Stato si è trasformato in un debitore permanente, perché costretto dai mercati finanziari del capitalismo neoliberista a una elevata “valorizzazione” del capitale, mediante l’apprezzamento continuo delle attività detenute in portafoglio; ciò per evitare la crisi dei mercati mobiliari e immobiliari sottostanti a tali attività. Il pericolo di possibili svalutazioni delle attività in portafoglio è divenuto in tal modo lo strumento attraverso il quale i mercati finanziari hanno conquistato la primazia sui mercati reali.
Lo Stato, intervenendo a sostegno dei mercati finanziari, non ha minimamente inteso sottrarsi al ruolo di stampella dell’economia privata, nel senso che il neoliberismo, lungi dall’essere stato “in continuità con la dottrina liberale classica”, ha concorso alla realizzazione di una regolazione delle istituzioni economiche, ridefinendone forma e funzioni. In tal modo, i cittadini sono stati ridotti a meri consumatori di servizi prevalentemente finanziari, per cui l’ineguaglianza, sia rispetto alle risorse economiche disponibili che ai diritti politici, è divenuta la dimensione permanente e necessaria dei sistemi economici ad economia di mercato.
La primazia dei mercati finanziari, separando il consumo dei cittadini dal reddito guadagnato sul mercato del lavoro, ha favorito che si espandesse il consumo a debito, dando luogo, come è risultato dall’esperienza dei mercati amglosassoni, a tre conseguenza tutte negative: un aumento delle proprietà immobiliari acquisite attraverso l’ottenimento di mutui bancari, lo sviluppo di mercati finanziari secondari che hanno consentito di diluire i rischi connessi alle varie forme di debito e una crescente deregolamentazione dei mercati finanziari.
Tutto ciò ha condotto a una gestione politica della domanda, ovvero ad una sorta di “keynesismo privato”, nel senso che, a differenza di quanto accadeva col keynesismo tradizionale, dove era lo Stato ad indebitarsi per attenuare gli esiti delle fluttuazioni cicliche attraverso il sostegno dell’occupazione, col keynesismo privato l’indebitamento dello Stato è stato orientato a finanziare il consumo separato dal potere d’acquisto da lavoro; tutto ciò al fine di consentire allo Stato di sostenere le aspettative dei consumatori ed a promuovere una dinamica dei prezzi correnti nei mercati mobiliari e immobiliari perché risultassero sempre orientati verso l’alto. Tale stato di cose, se per un verso ha concorso a contrastare la sopravvenienza continua di crisi, per un altro verso, ha spinto ad indirizzare i prestiti in tutt’altra direzione, che non verso il settore reale; ciò ha dato origine ad una forma di capitalismo interventista, per fare “del consumo a debito una nuova variabile autonoma della domanda effettiva”, mentre lo Stato si è fatto “imprenditore” nei luoghi dove lo sviluppo del capitalismo finanziario è risultato “più forte e dinamico”.
In questo modo, la politica del pieno impiego ha originato un “mondo del lavoro frammentato e precarizzato”, che non ha potuto opporsi alla compressione dei salari ed a quella dei consumi sociali. Più che a una frammentazione del mondo del lavoro – secondo Bellofiore – si è avuta una “sussunzione reale” del lavoro nella finanza e nel debito, che non ha solo “compresso il salario”, ma ha anche strumentalizzato il lavoro nella valorizzazione immediata degli investimenti in attività mobiliari e immobiliari, che hanno finito col trasformarsi in bolle finanziarie, la cui deflagrazione ha originato la situazione di crisi generalizzata attuale. Se le cose stanno così, conclude Bellofiore, per il rilancio della crescita e dello sviluppo, lo Stato non può che andare ben oltre la pura e semplice stabilizzazione dei mercati: “il suo intervento dovrà piuttosto essere quello di assumere direttamente e forse permanentemente, il ruolo di un diverso sviluppo”. Ma un discorso che rimetta al centro la decisone di cosa, come e quanto produrre “può contare solo su due cose: la crisi del capitalismo e il conflitto dal basso dei soggetti sociali”.
Questo modo di concepire il superamento della crisi è però molto distante dalla prospettiva intrinseca alla proposta della Mazzucato; quest’ultima, non afflitta dal catastrofismo di Bellofiore, evoca la necessità che la fuoriuscita dalla stagnazione, attraverso l’ausilio di politiche pubbliche attuate da uno Stato pervaso da autentico spirito schunpeteriano, avvenga con iniziative riformiste in grado di dare risposte positive ai diversi aspetti della crisi: come devono essere intese le nuove politiche pubbliche dinamiche; come realizzare una nuova concettualizzazione del ruolo dinamico del settore pubblico; come dovrebbero essere organizzate le istituzioni per consentire allo Stato di assumersi i rischi delle iniziative di lungo periodo, per far sì che la nuova crescita sia una “crescita intelligente”, da risultare totalmente inclusiva e sostenibile per l’intera società. Le risposte non possono essere rimandate a un presunto crollo del capitalismo, che, malgrado le sue debolezze, non sarà certo disposto, come lo stesso Bellofiore riconosce, a rinunciare ad imporre dall’alto le soluzioni alla stabilità dei mercati che “lo hanno visto stravincere negli ultimi decenni”.

Nell’immagine: In Val Susa lo street artist torinese GecArt ha realizzato un murale in versione No-Tav rivisitando il celebre “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo

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